Il TAR Milano a fronte di una censura che postula l’assenza di un presupposto normativo per lo svolgimento del procedimento finalizzato alla valutazione di incidenza su sito di importanza comunitaria (SIC), osserva che la stessa si pone in evidente e chiara contraddizione con la richiesta inoltrata dalla stessa ricorrente e finalizzata, per l’appunto, proprio ad ottenere la valutazione di incidenza sul sito importanza comunitaria, sulla base della sua ritenuta necessità.
Precisa, al riguardo, il TAR che: «un siffatto comportamento, con il quale, sostanzialmente, la ricorrente agisce in giudizio negando lo stesso presupposto sul quale aveva invece basato la propria iniziativa in sede amministrativa, costituisce, ad avviso del Collegio, una palese violazione dei canoni della buona fede e correttezza “che devono sempre e comunque informare la condotta dei soggetti avvinti da un rapporto giuridico […] con continuità anche nella (eventuale) successiva fase giurisdizionale, costituente il segmento finale del rapporto e del contatto inter partes” (T.A.R. Lazio Roma Sez. stralcio, 09/09/2019, n. 10797), integrando un’ipotesi di abuso del diritto (processuale) vietata dall’ordinamento, per come da tempo sancito dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questo Tribunale (Consiglio di Stato, sez. V, 27/3/2015, n. 1605; idem, 27 aprile 2015, n. 2064; Sez. III, 13-04-2015, n. 1855; T.A.R. Lazio Roma Sez. stralcio, 09/09/2019, n. 10797; TAR Campania, III, 10 gennaio 2018, n. 154; T.A.R. Lombardia, I, 19 novembre 2018, n. 2603 per cui: “Espressione dell’abusivo esercizio di un potere, anche processuale, […]è proprio la sua contraddittorietà con precedenti comportamenti tenuti dal medesimo soggetto, in violazione del divieto generale di venire contra factum proprium”).
Circostanza, che, in applicazione del principio per cui, un diritto, se esercitato al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge, cessa di ricevere tutela, comporta, “l’inammissibilità, prima ancora che l’infondatezza della doglianza” (T.A.R. Lazio, cit.)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1 del 30 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il Consiglio di Stato precisa che «se è vero che, nel processo amministrativo, l’omesso deposito di copia autenticata non può determinare l'improcedibilità ovvero l'inammissibilità del gravame, in quanto l’art. 94 c.p.a., nel disporre che nel giudizio di appello, unitamente al gravame, deve essere depositata anche una copia della sentenza impugnata, non richiede che si tratti necessariamente di una sua copia autentica, come invece è previsto espressamente dall’art. art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., l’inammissibilità dell’appello deve essere, al contrario, dichiarata nel caso di mancata produzione in grado di appello di alcuna copia della sentenza impugnata (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28 maggio 2014 n. 2773 nonché, più di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 19 febbraio 2019 n. 1136)».

Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 7133 del 17 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Secondo il TAR Milano «Non è … possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico (Consiglio di Stato, Sez. V, 17 gennaio 2018 n. 269).
E ciò a maggior ragione tenuto conto che si tratta di cooperative sociali e Onlus, che per loro natura agiscono per scopi sociali e mutualistici e non commerciali, avendo una vocazione non lucrativa.
La finalità lucrativa non è estensibile a soggetti che operano per scopi non economici, bensì sociali o mutualistici, per i quali l’obbligatoria indicazione di un utile d’impresa si tradurrebbe in una prescrizione incoerente con la relativa vocazione non lucrativa, con l’imposizione di un’artificiosa componente di onerosità della proposta. Ne deriva che, diversamente da quanto accade per gli enti a scopo di lucro, l’offerta senza utile presentata da un soggetto che tale utile non persegue non è, solo per questo, anomala o inaffidabile, in quanto non impedisce il perseguimento efficiente di finalità istituzionali che prescindono da tale vantaggio strictu sensu economico (Cons. Stato, sez. V, 13 settembre 2016 n. 3855)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2592 del 24 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano richiama «l’orientamento secondo cui la costruzione oggetto della domanda di sanatoria edilizia deve essere considerata unitariamente. Infatti la giurisprudenza formatasi in materia di condono edilizio esclude la possibilità di una sanatoria parziale, sul presupposto che il concetto di costruzione deve essere inteso in senso unitario e non in relazione a singole parti prive di autonomia funzionale. Pertanto, non è possibile scindere la costruzione tra i vari elementi che la compongono ai fini della sanatoria di singole porzioni di essa. Del resto, una volta che risulti l'inaccoglibilità di una istanza per come è stata proposta, l'Amministrazione legittimamente la respinge, senza porsi la questione se una diversa istanza - in ipotesi - avrebbe potuto avere un esito diverso (Cons. Stato, VI, 2 luglio 2018, n. 4033). E’ stato precisato che ai fini della valutazione della domanda di sanatoria edilizia, il concetto di costruzione deve essere inteso in senso unitario e non in relazione a singole parti autonomamente considerate, vale a dire che la costruzione non può essere scissa nei vari elementi che la compongono ai fini della sanatoria di singole porzioni di essa; va esclusa, pertanto, la possibilità di una sanatoria parziale ed è legittimo il rigetto integrale dell'istanza relativa alla costruzione abusiva nella sua interezza, senza che il Comune debba interrogarsi su quale sarebbe l'esito se l'istanza fosse stata confezionata diversamente (T.A.R. Toscana, sez. III, 18/09/2019, n.1247)».
Aggiunge tuttavia il TAR che «pur riaffermando il principio per cui è precluso il rilascio di una sanatoria parziale perché ciò significherebbe accordare al richiedente un titolo diverso nel contenuto rispetto alla domanda da lui presentata, la giurisprudenza continua a far salvo il particolare caso in cui la relazione tecnica illustrativa della domanda di sanatoria risulti scindibile in parti autonome, avuto riguardo in particolare all’impiego di più modelli per la redazione della domanda (Cons. Stato, II, 16 aprile 2020, n. 2434)» (come nel caso esaminato dal TAR ove gli abusi presentavano una loro autonomia e netta distinzione, sia dal punto di vista temporale, sia funzionale).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2575 del 22 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano a fronte di un ricorso con il quale vengono impugnati i provvedimenti con i quali sono state approvate le graduatorie provinciali delle supplenze, unitamente alle graduatorie stesse, nella parte in cui hanno attribuito al ricorrente un punteggio inferiore a quello ritenuto spettante, evidenziando altresì delle violazioni procedimentali, declina la propria giurisdizione e precisa che:
«Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie in materia di concorsi pubblici finalizzati all'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ex art. 63, comma 4, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, è limitata alle vere e proprie procedure concorsuali che iniziano con l'emanazione di un bando e sono caratterizzate dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione di una graduatoria finale di individuazione dei vincitori che andranno a ricoprire i posti messi a concorso. Partendo da questa premessa, la stessa giurisprudenza esclude che la suddetta norma trovi applicazione nelle fattispecie che si caratterizzano per la formazione di apposite graduatorie in cui vengono inseriti tutti coloro che siano in possesso di determinati requisiti (anche derivanti dalla partecipazione a concorsi) e che sono preordinate al conferimento dei posti di lavoro che si renderanno via via disponibili nel tempo. In quest’ultima categoria rientrano proprio le procedure di formazione e gestione delle graduatorie permanenti del personale docente e delle relative graduatorie provinciali per le supplenze i cui atti, non essendo ascrivibili ad altre categorie di attività autoritativa, si ritiene non possano che restare compresi tra le determinazioni assunte con la capacità ed i poteri del datore del lavoro privato ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, di fronte ai quali sono configurabili soltanto diritti soggettivi, con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario ( cfr. T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 9 dicembre 2020, n. 2405, 2408 e n. 2413; Consiglio di Stato, ad. plen. 12 luglio 2011, n. 11; T.A.R. Piemonte, sez. II, 5 agosto 2016, n.1110; T.A.R. Sicilia Catania, 21 novembre 2014, n. 3057; T.A.R. Emilia Romagna Bologna, sez. I, 4 giugno 2014, n. 575, T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 6 marzo 2013, n. 474; T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 27 marzo 2006, n. 719)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2511 del 16 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che quanto al numero di lotti aggiudicabili, l’art. 51, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016 stabilisce che “Le stazioni appaltanti possono, anche ove esista la possibilità di presentare offerte per alcuni o per tutti i lotti, limitare il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente, a condizione che il numero massimo di lotti per offerente sia indicato nel bando di gara o nell’invito a confermare interesse, a presentare offerte o a negoziare”; l’introduzione di un limite massimo di lotti aggiudicabili rappresenta una facoltà e non già un obbligo a carico delle stazioni appaltanti, facoltà che, per di più, deve specificamente trovare espressione nel bando di gara; il limite massimo di lotti aggiudicabili, quindi, costituisce una deroga alla regola generale per cui non vi sono limiti ai lotti aggiudicabili a un solo concorrente; in quest’ottica, la possibilità di stabilire un limite alla aggiudicazione di tutti i lotti di cui all’articolo 51 del Codice dei contratti è una facoltà discrezionale il cui mancato esercizio non è – da solo e di per sé — sintomo di illegittimità.

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2552 del 18 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che la nozione di pergotenda è riferibile solo ad opere che, pur non essendo destinate a soddisfare esigenze precarie, non necessitano di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della sua funzione (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 3309; Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 novembre 2019, n. 8190); tale tipologia di intervento non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o modificazione di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o della sagoma dell’edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, della sua facile e completa rimuovibilità, dell’assenza di tamponature verticale e della facile rimuovibilità della copertura orizzontale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 3309); deve quindi trattarsi di un mero arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all’appartamento cui accede, in quanto tale riconducibile agli interventi manutentivi non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 (così Consiglio di Stato, sez. VI, 11 aprile 2014, n. 1777).


TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2472 del 10 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che «Il nostro ordinamento, anche in considerazione del favor del diritto europeo per la partecipazione alle gare ad evidenza pubblica dei soggetti riuniti, quale che sia la forma giuridica di tale aggregazione, non vieta le ATI c.d. sovrabbondanti, sicché, come precisato dalla giurisprudenza, non può ritenersi illegittima l’ammissione in gara, e la successiva aggiudicazione della stessa, in favore di una associazione temporanea di imprese la cui mandataria sia in possesso dei requisiti per partecipare alla gara singolarmente, e quindi “sovrabbondante e/o sovradimensionata” in relazione alle esigenze della stazione appaltante, nel caso in cui la lex specialis non contempli uno specifico divieto di costituzione di raggruppamenti “sovrabbondanti”; invero, in assenza di uno specifico divieto del bando in tal senso, risulta pienamente legittima la partecipazione alla gara della medesima ATI (C.d.S., n. 560/2017; T.A.R. Puglia - Bari, n. 14/2015)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2517 del 17 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.





La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Osserva al riguardo la Corte che:
<<le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost.
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati in tutti i casi in cui – come avviene nella specie – alla protrazione automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto – l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche – in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità>>.

Corte Costituzionale n. 270 del 18 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Corte Costituzionale.


Il TAR Milano osserva che «Come già evidenziato da questa Sezione in plurime occasioni (sentenze 23 luglio 2020, n. 1433; 16 marzo 2020, n. 489; 30 giugno 2017, n. 1474; 15 dicembre 2017, n. 2394) le previsioni riguardanti la Rete verde di ricomposizione paesaggistica, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle “previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’articolo 77”, di cui alla lett. a dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede la conformazione di tutti gli strumenti di pianificazione urbanistica agli “obiettivi” e alle “misure generali” di tutela paesaggistica, con facoltà di introdurre “previsioni conformative di maggiore definizione che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dal PTR”. La disposizione normativa non contiene, invero, alcun riferimento ad aree o a specifici beni di rilevanza paesaggistica, ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e “valori paesaggistici” indicati dal P.T.R. (cfr. sul punto in maniera specifica, T.A.R. Lombardia, Milano, II, 30 giugno 2017, n. 1474).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.T.C.P. introdurre ulteriori disposizioni, destinate a prevalere immediatamente sugli strumenti comunali, riferite anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e specificamente individuati dal P.T.R.
D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’articolo 15 della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, II, 8 ottobre 2014, n. 2423).
L’individuazione degli ambiti destinati a far parte della Rete verde costituisce oltretutto scelta che involge interessi di carattere sovracomunale, ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 – in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione – alla Regione e alle Province. Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni (Consiglio di Stato, IV, 15 gennaio 2020, n. 379; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 23 luglio 2020, n. 1433; 30 giugno 2017, n. 1474; 5 aprile 2017, n. 798)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2492 del 14 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano ribadisce che «va attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di proprietà sui suoli, a tutti i vincoli, che non solo non sono esplicitamente preordinati all'esproprio in vista della realizzazione di un'opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da parte dei privati, e ciò in linea con quanto statuito dalla Corte costituzionale, per la quale non sono annoverabili tra i vincoli espropriativi quelli derivanti da scelte urbanistiche realizzabili anche a mezzo dell'iniziativa privata; in sostanza sono conformativi - e al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo non comportano indennizzo, non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di ritipizzazione - i vincoli che importano una destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e, quindi, siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2473 del 11 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Brescia, con riguardo alla natura e alla funzione degli istituti della sanatoria edilizia e dell’accertamento di compatibilità paesaggistica e alla possibilità per detti istituti ad avere ad oggetto interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, ricorda che : «La giurisprudenza ha chiarito, al riguardo, che “il permesso di costruire in sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 è finalizzato alla regolarizzazione degli abusi meramente formali - vale a dire di interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultino conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione e al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria - e non può riguardare, in conseguenza, interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione” (cfr. T.A.R. Torino, sez. II, 2 luglio 2019, n. 749). Analogamente, è stato affermato che “Nel rendere il parere di compatibilità paesaggistica per la sanatoria prevista dall'art. 1, commi 37, 38 e 39, l. n. 308 del 2004, l'Amministrazione preposta alla gestione del vincolo è tenuta ad esaminare l'oggetto dell'istanza nel suo stato attuale, senza che sussista alcun obbligo di indicare prescrizioni finalizzate a rendere l'opera compatibile con il contesto paesaggistico” (T.A.R. Genova, sez. I, 08/06/2016, n. 579)».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 839 del 1 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano ricorda che:
«Come noto, l’art. 80 comma 5 lettera “c” citata (oggi lettera “c-bis” dopo le modifiche introdotte dal decreto legge n. 135/2018 convertito con legge n. 12/2019), consente alle stazioni appaltanti di desumere il comportamento di gravi illeciti da ogni pregressa vicenda professionale dell’operatore economico; da ciò consegue l’onere per l’operatore di portare a conoscenza dell’amministrazione le informazioni relative alla propria attività, per consentire all’amministrazione stessa una ponderata valutazione dell’integrità e dell’affidabilità di ogni partecipante alla gara (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 6615/2020, oltre a sez. III n. 6530/2020 e sez. VI, n. 6743/2020; fra la numerose decisioni di primo grado, preme citare TAR Lombardia, Brescia, sez. I, sentenza n. 806/2020 e TAR Lombardia, Milano, sez. I, sentenza n. 1881/2020).
Spetterà poi all’amministrazione, nell’esercizio della propria discrezionalità, apprezzare le vicende professionali dell’impresa partecipante, per individuare il punto di rottura dell’affidamento del futuro contraente (sul punto preme rinviare altresì alla sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 16/2020)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2456 del 9 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, in presenza di provvedimento che costituisce presupposto di validità di un provvedimento consequenziale e non un elemento essenziale dello stesso, precisa che:
«il suo intervenuto annullamento in sede giurisdizionale non determina la caducazione automatica dell’atto conseguente (sulla nozione di atto presupposto, da ultimo, Consiglio di Stato, III, 10 novembre 2020, n. 6922), ma semplicemente ne vizia il contenuto, con l’effetto che se l’atto conseguente non viene rimosso dall’ordinamento – dall’Amministrazione in via di autotutela, oppure, con una pronuncia di tipo costitutivo, dal giudice – lo stesso si consolida e diviene inoppugnabile. Difatti, non sempre ciò che segue cronologicamente si pone in rapporto di causalità giuridica con ciò che lo precede, visto che l’atto successivo può ritenersi travolto dall’annullamento dell’atto presupposto soltanto allorquando il primo costituisca la specifica, ulteriore (e unica) manifestazione del vizio che ha afflitto il secondo, con la conseguenza che, ravvisato tale vizio, esso non può che congiuntamente invalidare, con effetto caducante, ciò che ne è il prolungamento. Un diverso regime deve applicarsi alle «vicende amministrative che traggono spunto da un assetto fattuale determinato da atti eventualmente illegittimi, ma che, rispetto a questi ultimi, non ne amplificano il vizio, ma, muovendo da quella condizione, evolvono in episodi della vita affatto autonomi. Non è infrequente, in altri termini, che gli estremi di fatto che si concedono all’azione amministrativa siano indotti da provvedimenti che precedono quest’ultima in via temporale, senza peraltro pregiudicarla giuridicamente: sono i casi in cui il post hoc non diviene giuridicamente un propter hoc. Nel linguaggio della giurisprudenza, infatti, l’effetto caducante è del tutto eccezionale, ed esige e “l’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale”, e che il secondo atto sia “inevitabile ed ineluttabile conseguenza (ndr: dell’atto presupposto) e senza necessità di nuove valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi” (ad es. Cons. Stato, sez. IV. n. 3001 del 2018; id. sez. V, n. 2168 del 2018)» (T.A.R. Lazio, Roma, II quater, 6 novembre 2020, n. 11551)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2367 del 2 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Si segnala il VII Convegno annuale della Società Lombarda degli Avvocati Amministrativisti - SOLOM: "Il processo amministrativo al vaglio della normativa e della giurisprudenza europea" che si terrà il 14 dicembre 2020 sulla piattaforma Zoom dalle ore 14:30 alle ore 16:30.


Per iscriversi occorre compilare e inviare il modulo allegato:


Il TAR Brescia ritiene illegittima una disposizione di un PGT che assoggetta a preventiva autorizzazione comunale l’abbattimento di alberi di alto fusto siti all’interno di aree agricole di proprietà privata e subordinatamente alla presentazione da parte del richiedente di un progetto di ripiantumazione o comunque di sostituzione delle piante ritenuto adeguato dall’Amministrazione.
Osserva al riguardo che «norma in questione è stata adottata in assenza di una previsione normativa di rango sovraordinato che la legittimasse, in violazione del principio di legalità che governa e condiziona la legittimità dell’azione amministrativa. Lo stesso art. 10 comma 4 della Legge Urbanistica Lombarda (L.R. 12/2005), nel prevedere che “Il piano delle regole: a) per le aree destinate all'agricoltura: 1) detta la disciplina d'uso, di valorizzazione e di salva-guardia”, aggiunge che tale disciplina deve essere dettata “in conformità con quanto previsto dal titolo terzo della parte seconda”, ossia in conformità con quanto previsto dagli artt. 59 e ss. della stessa legge regionale, i quali dettano norme specificamente riferite alla attività di “edificazione” consentita nelle aree destinate all’agricoltura, senza attribuire al pianificatore comunale poteri ulteriori genericamente riferiti ad ogni possibile utilizzazione del suolo, che possano in qualche modo legittimare previsioni pianificatorie dirette ad incidere in senso limitativo sull’esercizio di facoltà dominicali tipiche quali la scelta delle colture praticabili (come nel caso deciso dalla Sezione nel precedente sopra citato del 2005) o l’abbattimento delle alberature di proprietà privata (come nel caso qui in esame). E tali considerazioni consentono persino di prescindere dal rilevare, comunque, la palese irragionevolezza di una previsione regolamentare, quale quella (omissis) in questione, che, a rigore, imporrebbe agli imprenditori agricoli di richiedere la preventiva autorizzazione comunale anche per procedere al taglio di un solo albero di alto fusto (o, addirittura, di una sola ceppaia) sui terreni di loro proprietà, visto che la norma non ricollega la necessità dell’autorizzazione al ricorrere di soglie quantitative minime di alberature o di ceppaie da abbattere».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 796 del 16 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano ritiene ritualmente notificato un ricorso all’indirizzo p.e.c. estratto dal pubblico registro IPA in quanto non presente alcun indirizzo nel registro PP.AA., ai sensi dell’art. 16 ter DL 18/10/2012, n. 179, come modificato dall’art. 28, DL 16/07/2020 n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120.

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2382 del 3 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Per il TAR Brescia è illegittima la previsione del PGT che subordina il rilascio del titolo edilizio autorizzatorio degli interventi di ampliamento in una zona produttiva al preventivo parere favorevole dell’ufficio tecnico comunale, ciò in quanto:
«il rilascio di titolo abilitativo all'edificazione (e corrispondentemente il diniego) costituisce atto amministrativo vincolato alla verifica della conformità della richiesta alla disciplina urbanistico-edilizia (cfr., C.d.S., Sez. II, sentenza n. 3972/2019; C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 3317/2018). Conseguentemente, nel procedimento di rilascio non vi può essere spazio per una valutazione di tipo discrezionale, segnatamente sotto forma di parere dell’Ufficio tecnico. Se il progetto è congruente alla strumentazione urbanistica, il permesso di costruire deve essere rilasciato; in caso contrario, deve essere denegato (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 18/2019)».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 785 del 12 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Secondo il TAR Milano è legittima l’esclusione dalla gara del concorrente che non ha allegato la copia fotostatica del documento di identità del dichiarante, trattandosi di omissione che, ai sensi dell'art. 83, c. 9 D.Lgs. 18.4.2016, n. 50, non può essere sanata con il soccorso istruttorio.
Tuttavia, per il TAR, ove le dichiarazioni asseritamente carenti, siano sottoscritte con firma digitale, va considerato che dal combinato disposto dell'art. 65, c. 1, lett. a) del Codice dell'amministrazione digitale, e dell'art. 77, c. 6, lett. b) del Codice dei contratti, l'apposizione della firma digitale, a cagione del particolare grado di sicurezza e di certezza nell'imputabilità soggettiva che la caratterizza, è di per sé idonea a soddisfare i requisiti dichiarativi di cui al c. 3 dell'art. 38 del D.P.R. n. 445/2000, anche in assenza dell'allegazione di copia del documento di identità del dichiarante; la ratio della previsione dell’onere di produrre una copia del documento di identità, strettamente legata alla necessità per l’Amministrazione di identificare il richiedente, viene meno nel caso in cui le istanze o le dichiarazioni siano invece inviate per via telematica, prevedendo infatti il c. 2 del citato art. 38, che “sono valide se effettuate secondo quanto previsto dall'articolo 65 del decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82”.
Ne consegue, per il TAR, che la prescrizione della lettera di invito che commina l’esclusione delle offerte economiche prive di copia del documento d’identità dell’offerente, è in contrasto con il disposto dell’art. 83, c. 8, del D.Lgs. n. 50/2016 laddove le stesse siano state sottoscritte con firma digitale.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2395 del 4 dicembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Brescia, con riferimento alla possibile rimozione dei vizi dopo l'annullamento del permesso di costruire, precisa:
«19. L’art. 38 del DPR 380/2001 tutela il soggetto che esegue un intervento edilizio confidando senza colpa nella legittimità del permesso di costruire poi annullato. La tutela consiste nella facoltà di ottenere un nuovo titolo edilizio previa “rimozione dei vizi delle procedure amministrative”. Questa formula è stata variamente interpretata in giurisprudenza, ma recentemente si è affermata una tesi restrittiva, che limita la regolarizzazione alle questioni di forma e di procedura, con esclusione dei vizi sostanziali, allo scopo di evitare che “la conservazione dell'immobile nella sua integrità si ponga in irrimediabile conflitto con i valori urbanistici e ambientali” (v. CS Ap 7 settembre 2020 n. 17).
20. Prendendo come riferimento quest’ultima precisazione, sembra ragionevole ritenere che il confine tra l’ammissibilità e il divieto della riedizione del titolo edilizio annullato passi per la conformità con la disciplina urbanistica attuale. Più precisamente, se attraverso la rinnovazione dell’istruttoria è possibile dare un diverso fondamento giuridico all’edificazione nel rispetto della disciplina urbanistica attuale, il rilascio di un nuovo titolo edilizio appare ammissibile, in quanto viene salvaguardato l’equilibrio tra l’affidamento del privato e l’interesse pubblico di natura pianificatoria. Al contrario, se il mantenimento di quanto edificato introducesse un elemento incongruo rispetto alla disciplina urbanistica, tale equilibrio non sarebbe rispettato, perché il titolo edilizio annullato e rieditato avvantaggerebbe solo il privato, spezzando l’omogeneità della disciplina di zona. In questo caso, dovrebbe essere ingiunta la demolizione, e in alternativa la fiscalizzazione, se la demolizione, secondo il prudente apprezzamento dell’amministrazione, non fosse tecnicamente praticabile.
21. Per il rilascio di un nuovo titolo edilizio in luogo di quello annullato non è necessaria la doppia conformità, che è invece prevista per la sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001. Quest’ultima fattispecie e quella dell’art. 38 del DPR 380/2001 si distinguono perché in un caso viene posto in essere un comportamento illegittimo, mentre nell’altro il comportamento è assistito dalla presunzione di legittimità degli atti amministrativi (v. ancora CS Ap 17/2020 sopra citata). Ne consegue che per il passato vale l’apparenza giuridicamente qualificata, mentre è sufficiente che la conformità urbanistica sussista al momento del rilascio del nuovo titolo, in modo che sia certa la coerenza tra l’edificazione e la versione più recente dell’interesse pubblico di natura pianificatoria».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 777 del 9 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, con riferimento ai requisiti generali, di capacità tecnica e finanziaria in caso di partecipazione a una gara di appalto da parte di un consorzio, precisa che:
«mentre i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria riguardano il consorzio, se quelli di ordine generale fossero accertati solamente in capo a quest’ultimo, e non anche ai consorziati che eseguono le prestazioni, il consorzio potrebbe agevolmente diventare uno schermo di copertura, consentendo la partecipazione di soggetti privi dei necessari requisiti, derivandone che i requisiti di ordine generale devono essere posseduti individualmente dalle singole imprese consorziate (C.S., Sez. V, 5.6.2018, n. 3384).
Conseguentemente, in base a quanto disposto nel c. 7 bis dell’art. 48 cit. [del d.lgs. n. 50 del 2016 n.d.a.], la designazione di un’impresa diversa da quella indicata in sede di gara è consentita a condizione che la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa consorziata.
[Omissis] l'assenza di requisiti in capo all'impresa consorziata, incide sulla partecipazione dell'intero consorzio, senza che sia pertanto possibile neutralizzare tale effetto ostativo attraverso il ricorso a modelli riparatori di tipo sostitutivo (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 6.3.2019, n. 1304)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2298 del 25 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano richiama «la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui l'eccesso di potere per disparità di trattamento si può configurare solo sul presupposto, di cui l’interessato deve dare prova rigorosa, dell’identità assoluta in fatto della situazione considerata (Cons. Stato, sez. III, 2 novembre 2019, n. 7478; sez. IV, 27 luglio 2018, n. 4611; sez. VI, 30 ottobre 2017, n. 5016; sez. VI, 18 ottobre 2017, n. 4824).
In particolare, secondo un consolidato orientamento, in sede di formazione del piano regolatore e delle sue varianti la valutazione dell’idoneità delle aree a soddisfare specifici interessi urbanistici rientra nei limiti dell’esercizio del potere discrezionale dall’Amministrazione, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (Cons. Stato, sez. II, 5 giugno 2019, n. 3806; sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4150)».
Aggiunge quindi che la disparità di trattamento nella pianificazione tra aree presuppone che le aree oggetto di ricorso e quelle in comparazione si trovino nelle stesse identiche condizioni di fatto e di diritto, là dove nel caso esaminato l’identità di fatto non era stata dimostrata e quella di diritto era contraddetta dal fatto che le aree in questione rientravano in un diverso piano attuativo; d’altro canto, ricorda sempre il TAR, l’urbanistica è una disciplina che consiste proprio nel differenziare l’uso del territorio e quindi è intrinsecamente discriminatoria, con la conseguenza che l’eccesso di potere per disparità di trattamento dev’essere inteso in senso restrittivo.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2306 del 25 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.





Il TAR Milano ricorda che, per giurisprudenza pacifica, in assenza di un espresso obbligo di specifica verbalizzazione imposto dal disciplinare di gara, non vi è ragione per derogare dal principio generale secondo il quale gli apprezzamenti dei commissari sono destinati a essere assorbiti nella decisione collegiale finale, costituente momento di sintesi della comparazione e composizione dei giudizi individuali, mentre la separata enunciazione dei punteggi attribuiti dai singoli commissari assume valore di formalità interna relativa ai lavori della commissione esaminatrice.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2132 del 11 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano precisa che «secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio , quando un intervento edilizio consiste - come nel caso di specie - in una pluralità di interventi, l’Amministrazione deve compiere necessariamente una valutazione globale degli stessi, in quanto la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l’effettiva portata dell’operazione cfr. T.A.R. Piemonte - Torino, Sez. II, n. 825/2014; T.A.R. Campania - Napoli, Sez. VI, n. 4676/2013; T.A.R. Lombardia - Milano, Sez. II, n. 584/2010; T.A.R. Campania - Napoli, Sez. VI, n. 1167/2016, n. 2424/2016 e n. 2433/2016)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2232 del 23 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano ritiene inammissibili le contestazioni rivolte alla proroga della validità di un Documento di Piano di un PGT che non ha innovato il contenuto dello stesso, ma ne ha semplicemente ampliato l’arco di durata temporale, senza alcuna rinnovata valutazione e in esecuzione di una facoltà espressamente prevista dall’art. 5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014, come modificato con la legge regionale n. 16 del 2017. 
Osserva la riguardo che: «Del resto, a causa delle limitazioni imposte dal richiamato comma 4 del citato art. 5 – secondo il quale “fino all’adeguamento di cui al comma 3 [ovvero all’adeguamento del P.G.T. alle disposizioni della presente legge in seguito all’integrazione del P.T.R. e all’adeguamento dei P.T.C.P.] e, comunque, fino alla definizione nel PGT della soglia comunale del consumo di suolo, di cui all’articolo 8, comma 2, lettera b-ter), della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera h), della presente legge, i comuni possono approvare varianti generali o parziali del documento di piano e piani attuativi in variante al documento di piano, assicurando un bilancio ecologico del suolo non superiore a zero” – ai Comuni risultava impedita la piena esplicazione della propria potestà pianificatoria e quindi la possibilità di aggiornare liberamente il contenuto del Documento di Piano; conseguentemente, il legislatore regionale per evitare che, in attesa dell’adeguamento dei Piani regionali e provinciali alla normativa sulla riduzione del consumo di suolo, venisse meno la validità di uno degli atti fondamentali del P.G.T., ossia del Documento di Piano (avente una validità di cinque anni: art. 8, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005), ha ammesso la possibilità di prorogarne gli effetti fino all’adeguamento dei Piani di livello sovracomunale alla legge n. 31 del 2014. Tale opzione legislativa è vieppiù comprensibile se si considera che, nella versione precedente alla modifica introdotta dalla legge regionale n. 16 del 2017, il comma 4 dell’art. 5 della legge n. 31 del 2014 limitava ancora più sensibilmente il potere comunale di intervenire in sede pianificatoria (tuttavia tale disciplina è stata ritenuta costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 179 del 16 luglio 2019).
Risulta evidente che una tale proroga, ammessa dalla legge entro limiti ben precisi – sia temporali che contenutistici –, sebbene non obbligatoria, non consente di riaprire i termini processuali per mettere in discussione le scelte pianificatorie a suo tempo adottate, altrimenti verrebbe frustrata la stessa finalità di garantire la continuità della disciplina recata dal Documento di Piano, attraverso la possibile invalidazione – per via giurisdizionale – di quanto nello stesso contenuto ab origine. Tale interpretazione appare coerente con l’obiettivo perseguito dal legislatore regionale e non risulta in contrasto con i principi costituzionali, visto che rappresenta un equilibrato bilanciamento tra le esigenze di garantire la continuità dell’azione amministrativa in ambito pianificatorio (ammettendo la proroga dei Documenti di Piano scaduti con una procedura semplificata) e le prerogative dei Comuni (che possono scegliere se prorogare o meno tale atto), non comprimendo eccessivamente e per un tempo troppo lungo la posizione degli amministrati (la proroga è limitata nel tempo e, per le sue caratteristiche, non consente di apportare modifiche al contenuto dell’atto prorogato)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2213 del 19 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano ricorda che «l’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici) richiede, per l'accesso alle procedure ad evidenza pubblica, la necessaria sussistenza di una serie di requisiti i quali, secondo una consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, (Ad. Plen. sent. n. 8 del 2015), devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all'aggiudicazione definitiva e alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo di esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità».

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2240 del 23 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, richiamando anche la previsione contenuta nell’articolo 4-bis della L.R. 2 febbraio 2010 n. 6, evidenzia come la liberalizzazione del commercio, in conformità alla direttiva 2006/123/CE, non comporti l’impossibilità per il Comune di impedire nuovi insediamenti commerciali, purché i dinieghi siano sorretti da ragioni urbanistiche e non economiche.
Al riguardo precisa che:
«8.4. Infatti, sebbene la disciplina (nazionale e sovranazionale) relativa all’insediamento delle attività commerciali esplichi un rilevante impatto anche sugli atti di programmazione territoriale, va, comunque, considerato che questi ultimi, adottati nell’esercizio del differente potere in materia di pianificazione urbanistica, sono da considerarsi legittimi ove perseguano, come nel caso di specie, finalità di tutela dell’ambiente urbano e siano riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio (cfr. T.A.R. per l’Emilia-Romagna – sede di Parma, Sez. I, 17 marzo 2016, n. 110; T.A.R. per la Lombardia – sede di Milano, Sez. I, 10 ottobre 2013, n. 2271; Id., Sez. II, 10 dicembre 2019, n. 2636).
8.5. La previsione di cui all’articolo 11 del D. Lgs. n. 59 del 2010 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) stabilisce, difatti, che l’accesso ad un’attività di servizi o il suo esercizio può essere subordinato al rispetto dei requisiti di programmazione che non perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi imperativi d’interesse generale (cfr.: comma 1, lettera e). Ugualmente le disposizioni di cui agli articoli 31 e 34 del decreto legge n. 201 del 2011 prevedono la possibilità di porre limitazioni all’insediamento di attività produttive e commerciali in determinate aree allorquando emerga la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali, trattandosi di esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione, nel rispetto del principio di proporzionalità, di atti limitativi della libera iniziativa privata (Corte costituzionale, sentenza n. 239 dell’11 novembre 2016). In tal modo si cerca di contemperare il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche con le dovute necessarie limitazioni alla libera iniziativa economica, laddove queste trovino puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore ha individuato (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 200 del 12 luglio 2012; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. IV, 24 maggio 2019, n. 3419; Id., 1° giugno 2018, n. 3314; Id., Sez. V, 13 febbraio 2017, n. 603).
8.6. In definitiva, la giurisprudenza ritiene legittime scelte di pianificazione che, nel perseguimento di interessi attinenti alla tutela dell’ambiente, della vivibilità e dell’ordinato assetto del territorio, impongano dei limiti all’insediamento di attività commerciali (cfr.: Corte costituzionale, sentenza n. 239 dell’11 novembre 2016; cfr., altresì, T.A.R. per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 25 maggio 2017, n. 1166)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2139 del 12 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano, con riferimento alla previsione di cui all’articolo 21-nonies della l. 241/1990 nel testo introdotto dalla legge 7 agosto 2015 n. 124, aderisce all’orientamento secondo cui le nuove disposizioni trovano applicazione solo ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi all'entrata in vigore della nuova disposizione (T.A.R. Lazio, Roma, sez. I bis, 2 luglio 2018, n. 7272). 
Secondo il TAR: «Va, infatti, considerato che la nuova disposizione ancora l’esercizio del potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela – per i provvedimenti già emessi prima del 28 agosto 2015 – necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati prima della novella. Aderendo alla tesi pur patrocinata da parte della giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di successiva rimozione. In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del singolo atto – come espressamente disposto dalla norma – ma, al contrario, sulla data di entrata in vigore della legge. Si perviene, così, al risultato di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere. L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge. Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio, l’unica che in tale quadro avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) (cfr., in giurisprudenza, Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 gennaio 2020, n. 632, che conferma la sentenza della Sezione del 3 ottobre 2018, n. 2200; T.A.R. per la Campania – sede di Napoli, Sez. VIII, 09 luglio 2020, n. 2948)»

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2181 del 16 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano «conferma l’orientamento già espresso in altre precedenti occasioni secondo il quale la proposizione di una istanza di accertamento in conformità - successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive – “produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace il provvedimento sanzionatorio, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo secondo caso all’emanazione di un’ulteriore misura sanzionatoria, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere (v. sent. n. 2635 del 23 novembre 2018)” (T.A.R. per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 27 marzo 2019, n. 665)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2172 del 13 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.

Per un orientamento difforme vedi il precedente post


Il TAR Milano precisa che: «Nel giudizio amministrativo l’intervento ad adiuvandum o ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale, non essendo sufficiente a consentire l’istanza di intervento la sola circostanza per cui il proponente sia o possa essere parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella posta nell’ambito del giudizio principale (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, Ad. plen., 27 febbraio 2019, n. 4; Consiglio di Stato, sez. III, 03/07/2019, n. 4566)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2071 del 6 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che all’omessa impugnazione del provvedimento di aggiudicazione della gara consegue l’improcedibilità dell’azione di annullamento del provvedimento di esclusione, non già l’improcedibilità dell’azione risarcitoria autonoma, proposta ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del codice del processo amministrativo.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2097 del 9 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano osserva: «come la giurisprudenza della Sezione chiarisca come i contenuti del Documento di Piano attinenti alla disciplina degli ambiti di trasformazione siano stabiliti dall’articolo 8, comma 2, lettera e), della L.r. n. 12 del 2005. La disposizione prevede, in particolare, che il Documento di Piano “individua, anche con rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli ambiti di trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di intervento, preordinati alla tutela ambientale, paesaggistica e storico-monumentale, ecologica, geologica, idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione conoscitiva”.
9.1. Le previsioni contenute nel Documento di Piano “non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione; a tal fine è necessario l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole di dettaglio, dovrà definire in maniera puntuale il quadro giuridico ad essi applicabile, con norme aventi carattere prescrittivo” (cfr. T.A.R. per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 7.11.2019, n. 1022).
9.2. La giurisprudenza della Sezione differenzia, sulla base del quadro normativo vigente, tra il regime giuridico degli ambiti di trasformazione e quello del tessuto urbano consolidato. Per i primi la disciplina giuridica è dettata “da una duplice fonte: il documento di piano, che li individua e detta le prescrizioni di massima che non hanno però effetto diretto sul loro regime giuridico; ed i piani attuativi che dettano invece le prescrizioni di dettaglio aventi effetti diretti sul loro regime giuridico”. Conferma, inoltre, l’inidoneità delle previsioni contenute nel documento di piano a spiegare effetti diretti trattandosi di regole di massima che necessitano di previsioni puntuali rimesse alla pianificazione attuativa (T.A.R. per la Lombardia – sede di Milano, 5.12.2014, n. 2971; Id., 6.2.2018, n. 347). Al contrario, “per gli ambiti del tessuto urbano consolidato”, “l’art. 10, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce al Piano delle Regole la definizione delle modalità di intervento e dei parametri da rispettare negli interventi di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre, che le indicazioni contenute nel Piano delle Regole hanno carattere vincolante e producono effetti diretti sul regime giuridico dei suoli e non hanno termini di validità” (T.A.R. per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 7.11.2019, n. 1022)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2182 del 16 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri


Il TAR Milano disattende una richiesta di rinvio motivata sulla intenzione di "rivisitare" una struttura alberghiera di cui era stato denegato l’accertamento di conformità e ordinata la demolizione e precisa:
«7.1. Come osservato dal Consiglio di Stato “nell’ordinamento afferente al processo amministrativo non esiste norma giuridica o principio ordinamentale che attribuisca alle parti in causa il diritto al rinvio della discussione del ricorso o alla cancellazione della causa dal ruolo, atteso che le stesse hanno solo la facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare il differimento dell'udienza o la cancellazione della causa dal ruolo, ma la decisione finale in ordine ai concreti tempi della decisione spetta comunque al giudice”. E “ciò, in quanto la richiesta di cancellazione della causa dal ruolo ovvero di rinvio della trattazione di una causa deve trovare il suo fondamento giuridico in gravi ragioni idonee ad incidere, se non tenute in considerazione, sulle fondamentali esigenze di tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantite, atteso che, pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo sia regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti” (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 29 dicembre 2014, n. 6414; Consiglio di Stato, sez. VI, 7 ottobre 2015, n. 3911). Inoltre, va considerato come risponda “all’esigenza di ordinato svolgimento della giustizia che i ricorsi, una volta fissati, siano decisi, poiché la fissazione di un ricorso preclude, con la saturazione del ruolo di udienza, la conoscenza di altra controversia” (Consiglio di Stato, sez. V, 8 aprile 1997, n. 696).
7.2. Nel caso di specie la richiesta si fonda, inoltre, sulla possibile “rivisitazione” dell’intera struttura alberghiera che la ricorrente intende realizzare. Si tratta, tuttavia, di mere ipotesi progettuali di cui non è agevole preventivare una reale tempistica. Inoltre, l’incidenza sulla controversia è meramente eventuale e non certa. In ultimo, non può non tenersi conto degli interessi pubblici di cui i provvedimenti impugnati sono espressione e che, per parafrasare l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, non sono certamente i convitati di pietra del processo amministrativo (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 27 aprile 2015, n. 5)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2172 del 13 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che:
«Il comma 1 dell’articolo 30 del codice del processo amministrativo, in base al quale l’azione risarcitoria per lesione dell’interesse legittimo può essere proposta anche ove non sia stata proposta l’impugnazione del provvedimento ritenuto causativo del danno, deve essere letto in combinato disposto con il comma 3 del medesimo articolo, a tenore del quale <<Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti>>.
Osserva il Collegio che la comunicazione del preavviso di ricorso ai sensi dell’articolo 243-bis del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, deve considerarsi come comportamento necessario e sufficiente per evitare il consolidarsi degli effetti dannosi derivanti dal provvedimento di esclusione e, dunque, non può essere considerato quale concausa nella produzione del danno lamentato.
Non è infatti ragionevolmente esigibile che al concorrente illegittimamente escluso dalla gara, il quale abbia immediatamente presentato istanza di autotutela, si addossi anche l’onere di impugnazione del provvedimento di esclusione e della proposizione della relativa domanda cautelare, attesa la maggiore onerosità del rimedio giurisdizionale ed i rischi conseguenti al suo esito.
Il maggiore sforzo richiesto al concorrente escluso dall’attivazione della tutela giurisdizionale non sarebbe infatti proporzionato all’esito verosimilmente infausto della domanda cautelare, per carenza del necessario elemento del periculum in mora».

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2097 del 9 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri





Il TAR Milano ribadisce che «le modificazioni in pejus delle precedenti destinazioni urbanistiche di un’area non richiedono una specifica motivazione neanche se incidono su singole aree (Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 1993, n. 642 in Cons. Stato, 1993, 1, 1261). Con ciò si intende dire che l'Amministrazione non è tenuta ad effettuare una comparazione tra gli interessi pubblici e i singoli interessi privati che vengono sacrificati in casi di modificazione in pejus del precedente assetto urbanistico. La mera aspettativa edificatoria del privato non può quindi costituire un limite alla soddisfazione degli interessi pubblici sottesi all'adozione della variante (Consiglio di Stato, sez. IV 1 ottobre 2004, n. 6401). In particolare non sussiste un affidamento tutelato neppure in caso di preesistente possibilità edificatoria, perché il mutamento di destinazione trova esauriente giustificazione, ai sensi dell’art. 10, comma 7, legge 17.8.1942, n. 1150, nelle “sopravvenute ragioni che determinino la totale o parziale inattuabilità del piano o la convenienza di migliorarlo” (Cons. Stato IV, 31.1.05 n. 25).
4.2 Né l’affidamento può fondarsi sul mero fatto che il lotto è stato edificato, potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio - rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis Cons. Stato IV, 9 maggio 2018, n. 2780; sez. IV, 4 marzo 2003, n. 1197; sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2046 del 30 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale «(cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 7 luglio 2018, n. 4849), in tema di criteri di interpretazione dei bandi di gara, deve farsi applicazione del principio “per il quale ‘l'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando ‘de quo’, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, perché gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative" (così, tra le tante, Cons. Stato, V, 13 gennaio 2014 n. 72); con la conseguenza che ‘la dovuta prevalenza da attribuire alle espressioni letterali, se chiare, contenute nel bando esclude ogni ulteriore procedimento ermeneutico per rintracciare pretesi significati ulteriori e preclude ogni un'estensione analogica intesa ad evidenziare significati inespressi e impliciti, che rischierebbe di vulnerare l'affidamento dei partecipanti, la par condicio dei concorrenti e l'esigenza della più ampia partecipazione; mentre invece le ragioni immanenti, di matrice eurounitaria, di garanzia della concorrenza che presiedono al settore delle commesse pubbliche vogliono favorire la massima partecipazione delle imprese alla selezione, perché attraverso la massima partecipazione è raggiungibile il miglior risultato non solo per il mercato in sé, ma per la stessa amministrazione appaltante (cfr. Cons. Stato, V, 15 luglio 2013, n. 3811)’ (così Cons. Stato, V, 12 settembre 2017, n. 4307)”».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1921 del 14 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, dopo aver precisato che secondo il principio “chi inquina paga”, il soggetto tenuto ad effettuare interventi di bonifica ambientale (e connesse attività preparatorie) è il responsabile dell’inquinamento, non la proprietà dell’area, che non può essere considerata come destinataria di una fattispecie di responsabilità oggettiva (vedasi da ultimo T.A.R., Roma, sez. I , 04/05/2020 , n. 4590), anche se la matrice ambientale risulta compromessa per fatti risalenti ad epoche anteriori all’entrata in vigore del dlgs 152/2006, aggiunge:
«Tuttavia, ancora secondo la giurisprudenza (cfr. TAR Brescia, I, 25/09/2019, n.831), “l'intervento di bonifica assunto volontariamente ai sensi dell'art. 245 comma 1, nonché dell'art. 252 comma 5, del Dlgs. 152/2006, costituisce una gestione di affari altrui, che, in applicazione analogica della norma generale ex art. 2028 c.c., deve essere portata a compimento, o comunque proseguita finché l'amministrazione non sia in grado di far subentrare l'autore dell'inquinamento. Lo stesso vale se l'assunzione dell'intervento di bonifica da parte del proprietario incolpevole o di altri soggetti è avvenuta ai sensi dell'art. 9 del DM 25 ottobre 1999 n. 471.”, precisandosi altresì che “Le ragioni private per cui un soggetto non obbligato, oppure obbligato solo per una parte, assume con il proprio comportamento l'impegno a eseguire un complessivo intervento di bonifica possono essere le più varie (ad esempio, evitare l'onere reale connesso alle opere di bonifica, se realizzate dall'amministrazione; eseguire accordi transattivi stipulati con i veri responsabili dell'inquinamento; tutelarsi contro una situazione di incertezza giuridica, prevenendo eventuali responsabilità penali o risarcitorie). Lo schema della gestione di affari richiede esclusivamente che vi sia la consapevolezza dello stato di contaminazione dell'area e della necessità di eseguire la bonifica secondo le direttive stabilite dall'amministrazione. Poiché la bonifica viene effettuata in sostituzione dell'autore dell'inquinamento, il soggetto che si intromette potrà rivolgersi a quest'ultimo per essere indennizzato delle spese, fermi restando gli accordi tra le parti private. Dal lato dell'amministrazione, l'impegno del soggetto incolpevole, o parzialmente colpevole, che volontariamente assume gli oneri della bonifica costituisce un risultato di interesse pubblico, e produce quindi un affidamento tutelabile. La legittimità di questa posizione di vantaggio non esime però l'amministrazione dall'obbligo di far eseguire la bonifica agli autori dell'inquinamento. Se vi è accordo tra le parti private, l'obbligo evidentemente decade, essendo ininfluente che l'intervento sia realizzato da un soggetto diverso dagli autori dell'inquinamento, qualora non vi siano sostanziali differenze qualitative nel risultato. Se però tra le parti private non vi è un accordo, o è subentrata una situazione di disaccordo, l'amministrazione deve prevedere un percorso di ordinata transizione dai soggetti non responsabili dell'inquinamento a quelli responsabili. Tra i profili di interesse pubblico che possono essere presi in esame nell'impostazione di questo percorso vi è anche la stabilità degli interlocutori, ossia dei destinatari delle future direttive sulla bonifica. Questo consente all'amministrazione di attendere la conclusione delle controversie sull'individuazione degli autori dell'inquinamento e sui relativi gradi di responsabilità, in modo da operare in un quadro di certezza del diritto. Nel frattempo, rimane fermo l'obbligo di proseguire nell'attività di bonifica a carico del soggetto che ha assunto volontariamente questo impegno.”».

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1820 del 7 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Brescia, dopo aver richiamato l’art. 59, comma 1, della L.R. 12/2005 che prevede: «Nelle aree destinate all’agricoltura dal piano delle regole sono ammesse esclusivamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti agricoli secondo i criteri e le modalità previsti dall’articolo 60», precisa:
«Il principio di fondo ritraibile dalla norma citata è che qualsiasi intervento non compatibile con la destinazione agricola è inammissibile, salvo che siano rispettati i parametri di cui all’eccezione dettata dal riportato comma 1 dell’art. 59.
Pertanto, il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi da quanto affermato nella sentenza del TAR Lombardia, Milano, n. 1231/2017, nella quale si legge che “La realizzazione del piazzale - deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, D.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola” (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10 marzo 2016, n. 1397; 7 novembre 2016, n. 5116)”.
Questo stesso Tribunale ha già avuto modo di affermare come debba riconoscersi rilevanza urbanistica (anche) al solo spianamento di un terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale per deposito e smistamento di autocarri" (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 18 febbraio 2019, n. 157).
Deve, dunque, escludersi che la sistemazione del terreno finalizzata alla realizzazione del piazzale, avvenuta nella fattispecie, sia qualificabile come un’opera non necessitante di titolo abilitante, mentre è vero il contrario».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 744 del 29 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che non è previsto in capo al Sindaco (a differenza della rimozione di rifiuti, che rientra nella competenza sindacale ex art. 192 del dlgs 152/2006, confermativo, sul punto, del regime di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997), un potere “tipico” rivolto ad assicurare la esecuzione di interventi di bonifica di ambienti inquinati, che spetta alla Provincia, ex art. 244 e 245 dlgs 152/2006.
Il TAR richiama in argomento: T.A.R. Bologna, sez. II, 14/12/2017, n. 831, secondo cui “deve ritenersi, in linea di principio, illegittimo l'utilizzo dello strumento dell'ordinanza contingibile e urgente per la bonifica di siti inquinati poiché il legislatore, per tali necessità, ha individuato nel c.d. codice dell'ambiente una specifica competenza di cui è titolare l'Amministrazione provinciale la quale deve provvedervi con gli strumenti che l'ordinamento di settore appronta; d'altronde, l'uso dell'ordinanza contingibile e urgente da parte del sindaco si pone, astrattamente, quale strumento di potenziale elusione della disciplina dettata dal codice dell'ambiente il quale, individuando una specifica competenza e procedura sul punto, ha inteso attribuire al livello intermedio di amministrazione locale, l'adozione di provvedimenti quale quello per cui è causa anche nelle situazioni di urgenza” e anche: T.A.R. Palermo, sez. I , 24/07/2013 , n. 1527.

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1810 del 7 ottobre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, con riferimento alla legittimazione a ricorrere avverso un permesso di costruire, osserva che: «16.2. Secondo consolidata giurisprudenza amministrativa la domanda di annullamento di un titolo edilizio non costituisce un’azione di stampo popolare ma può proporsi solo da parte di soggetto a cui l’ordinamento conferisca apposita legittimazione (cfr., ex multis, T.A.R. per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 4 settembre 2020, n. 1643).
16.3. In particolare, la verifica della sussistenza della legittimazione a ricorrere si compie per il tramite dei due criteri della qualificazione e della differenziazione.
16.4. Il primo di questi assume una dimensione eminentemente normativa e consiste, secondo una recente e condivisibile ricostruzione dottrinale, nella verifica dell’esistenza di una norma “investitiva” che assegni ad un determinato interesse riconoscimento e protezione giuridica […]
16.5. Diversa, invece, è la portata dal criterio di differenziazione che opera in base a dati materiali cui l’ordinamento riconosce efficacia selettiva. È il caso della c.d. vicinitas o, secondo una diversa ricostruzione, della distanza selezionata dalla normativa di riferimento (cfr., ad esempio, articolo 873 c.c.)».
Quanto al criterio della c.d. vicinitas il TAR aderisce «alla ricostruzione che invoca il criterio della vicinitas: nozione eminentemente relativa e non verificabile “in base al solo dato “fisico” della distanza” ma “in relazione alla entità ed alla destinazione dell’immobile […] (dovendosi, al contrario, considerare anche le modificazioni di carico urbanistico e le conseguenze sul diritto alla salute e sulle ordinarie esigenze di vita che la nuova costruzione potrà apportare sui soggetti che hanno uno stabile collegamento con la zona interessata)” (Consiglio di Stato, sez. IV, 26 aprile 2018, n. 2529; Id., Sez. IV, 3 maggio 2019, n. 2891; Id., 29 marzo 2019, n. 2100)». 


TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2060 del 3 novembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Brescia ribadisce che «la tutela paesaggistica non è ancillare alla pianificazione urbanistica: all’attribuzione da parte del Comune di capacità edificatoria a una determinata area assoggetta a vincolo non corrisponde l’obbligo della Soprintendenza di consentire senz’altro l’edificazione, quasi che questa possa esprimersi solo sul quomodo, e non anche sull’an. L’assegnazione di una determinata volumetria a un ambito paesaggisticamente protetto non garantisce in automatico la possibilità di fruire di quella volumetria, dovendosi l’edificazione conformare alle esigenze di tutela del paesaggio, e dunque non genera alcuna aspettativa qualificata in capo al proprietario dell’area medesima».
Aggiunge il TAR che a conclusioni diverse non può giungersi nemmeno assumendo che il presupposto piano attuativo (nella fattispecie approvato nel 1995) abbia tenuto conto anche dei profili paesaggistici dell’intervento; e invero «Anche ove così fosse, deve, infatti, ritenersi che il lungo lasso di tempo intercorso, la trasformazione del contesto (con gli edifici nel frattempo realizzati), l’evoluzione della sensibilità paesaggistica e della normativa di settore imponevano necessariamente una nuova valutazione da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo: nuova valutazione che comprendeva anche in ipotesi del divieto di sfruttare la volumetria residua pure prevista dalla strumentazione urbanistica».
In conclusione e in linea generale per il TAR «di per sé la c.d. opzione zero, ovverossia l’incompatibilità della tutela paesaggistica di un determinato ambito con qualsivoglia tipo di edificazione, non è illegittima, salvo un obbligo motivazionale rafforzato, in considerazione del sacrificio imposto al privato proprietario dell’area medesima».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 738 del 27 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, a fronte di una censura con la quale si afferma che la mancata condivisione da parte di tutti i lottizzanti di modificare alcuni aspetti di una convenzione urbanistica non avrebbe potuto impedire uno stralcio del Piano attuativo, considerati il carattere minoritario e la “marginalità”, in termini geografici, delle aree dei lottizzanti dissenzienti, precisa che:
«la normativa nazionale e regionale ammette la realizzazione di un Piano attuativo per stralci funzionali o per parti in presenza dell’accordo della maggioranza dei proprietari della aree coinvolte e non richiede l’unanimità degli stessi a condizione che lo stesso non sia stato ancora approvato: sia l’art. 27, comma 5, della legge n. 166 del 2002 che l’art. 12, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005 stabiliscono che è sufficiente il concorso della maggioranza dei proprietari degli immobili interessati “al momento della presentazione del piano”, ossia prima che lo stesso venga approvato e venga poi sottoscritta la connessa convenzione. Appare evidente – e il dato normativo sopra richiamato ne rappresenta una conferma – che una volta approvato il Piano attuativo e stipulata la convenzione non si può far altro che darvi puntuale attuazione, trattandosi di atti che vincolano le parti e che solo di comune accordo possono essere modificati o risolti, in applicazione dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, II, 23 giugno 2020, n. 1166). Una conferma di tale conclusione è rappresentata dalla necessità di prestazione – come avvenuto nella specie – di specifiche garanzie che i soggetti stipulanti devono fornire all’Ente pubblico in vista dell’adempimento degli obblighi assunti».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2009 del 28 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che il principio di equivalenza di cui all’art. 68 del D.Lgs. 50/2016:
«costituisce regola generale dell’intero sistema dei contratti pubblici, di derivazione euro-unitaria ed è volto a garantire una piena attuazione del principio di concorrenza e di massima partecipazione alle gare, onde consentire alle amministrazioni di ottenere prodotti o soluzioni che siano in ogni modo rispettosi dei requisiti richiesti dalle amministrazioni medesime (cfr. l’art. 68 comma 8 citato ed in giurisprudenza, fra le più recenti sentenze: Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3808/2020; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 1386/2020 e TAR Marche, n. 518/2020).
Inoltre, il giudizio di equivalenza espresso dall’amministrazione costituisce manifestazione della discrezionalità tecnica di quest’ultima, censurabile pertanto solo in caso di evidenti errori o di manifesta illogicità, cioè in caso di palese inattendibilità della valutazione della commissione di gara (cfr. sul punto TAR Campania, Napoli, sez. V, sentenza n. 4315/2020 e TAR Sicilia, Palermo, sez. II, sentenza n. 1145/2020).
Certamente il richiamo al principio di equivalenza, e sul punto concorda anche lo scrivente collegio, non può essere strumentalmente effettuato per fornire all’appaltante un prodotto o un servizio radicalmente differente da quello richiesto (c.d. aliud pro alio)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 1894 del 13 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.








Con riguardo ai poteri di pianificazione urbanistica e di verifica di compatibilità ambientale, il TAR Brescia osserva che: «I due poteri, pianificatorio e di verifica della compatibilità ambientale, oltre ad essere esercitati da due soggetti diversi, si fondano su diversi presupposti e incontrano limiti diversi. La pianificazione dell’uso del territorio, rimessa al Comune, è la sede nella quale esigenze di tipo conservativo del paesaggio possono trovare compensazione, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio e, quindi, alle aspettative dei proprietari dei terreni (Consiglio di Stato, sentenza n. 7839/2019). Per converso, come chiarito nella stessa sentenza ora citata, <<l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio; vicendevolmente, il potere di pianificazione urbanistica, via via evoluto in senso propulsivo di miglioramento della vivibilità del suolo (si pensi alla tutela dei centri storici e, più settorialmente ma in maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di legge speciale che hanno valorizzato il potere di limitare in senso qualitativo gli insediamenti, anche commerciali, per migliorare il “decoro” e la vivibilità delle città) può rafforzare i limiti, anche conservativi, ampliando la soglia della tutela, ma mai prescinderne, condizionandola.>>».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 683 del 5 ottobre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 269 del 28 ottobre 2020 il decreto legge 28 ottobre 2020 n. 137 che reca, all’art. 25, la disciplina sulle udienze da remoto nel processo amministrativo per il periodo temporale dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021.
Questo il testo:
Art. 25. 
(Misure urgenti relative allo svolgimento del processo amministrativo) 
1. Le disposizioni dei periodi quarto e seguenti del comma 1 dell'articolo 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1 della legge 25 giugno 2020, n. 70, si applicano altresì alle udienze pubbliche e alle camere di consiglio del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e dei tribunali amministrativi regionali che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e, fino a tale ultima data, il decreto di cui al comma 1 dell'articolo 13 dell'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, prescinde dai pareri previsti dallo stesso articolo 13.
2. Durante tale periodo, salvo quanto previsto dal comma 1, gli affari in trattazione passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell'articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Restano fermi i poteri presidenziali di rinvio degli affari e di modifica della composizione del collegio. 
3. Per le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020, l'istanza di discussione orale, di cui al quarto periodo dell'articolo 4 del decreto-legge n. 28 del 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell'udienza pubblica o camerale.