Il TAR Milano precisa che:
<<nel corso della verifica della congruità delle voci di costo, compreso quella della manodopera, è ammissibile la correzione di errori materiali, ma consolidata giurisprudenza precisa che l’errore materiale direttamente emendabile è soltanto quello che può essere percepito o rilevato ictu oculi, dal contesto stesso dell’atto e senza bisogno di complesse indagini ricostruttive (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 11 gennaio 2018, n. 113; Consiglio di Stato, sez. VI, 2 marzo 2017, n. 978);
- il principio appena riferito è strettamente correlato a quello dell’immodificabilità sostanziale dell’offerta, posto a tutela sia della imparzialità e della trasparenza dell’agire della stazione appaltante, sia del valore della concorrenza e della parità di trattamento tra gli operatori economici che prendono parte alla procedura concorsuale;
- resta fermo che la verifica di congruità non è diretta ad evidenziare singole inesattezze dell’offerta (la c.d. “caccia all’errore”) ed anzi consente limitati aggiustamenti a fronte di errori materiali, che però devono presentare effettivamente tale natura, ossia essere percepibili ictu oculi, ma tale circostanza non sussiste nel caso di specie;>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 399 del 12 febbraio 2021.
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Il TAR Milano aderisce alla giurisprudenza, sia civile sia amministrativa, che riconosce rilevanza ai fini delle distanze tra fabbricati anche alle strutture accessorie di un fabbricato, come la scala esterna, pur se scoperta, se e in quanto presenta i connotati di consistenza e stabilità (Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2014, n. 1000; Cassazione civile, sez. II, 30 gennaio 2007 n.1966; TAR Basilicata 7 dicembre 2017, n. 760; TAR Basilicata, 19 settembre 2013 n. 574).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 472 del 19 febbraio 2021.
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Il TAR Milano giudica erronea la tesi secondo cui <<l’esame di impatto paesistico risulterebbe necessario per qualsivoglia intervento sul territorio regionale, anche nel caso di installazione delle antenne di telefonia mobile – assolutizzando le previsioni del Piano paesaggistico regionale laddove stabilisce che anche nelle aree non sottoposte a specifico vincolo paesaggistico, i progetti di intervento devono essere corredati da esame di impatto paesistico (cfr. paragrafo 1.3 della D.G.R. 15 marzo 2006, n. 8/2121 …; paragrafo 1.2 della D.G.R. 22 dicembre 2011, n. 9/2727 …) –, non costituendo eccezione a tale regola il procedimento di cui all’art. 87 del D. Lgs. n. 259 del 2003; tuttavia, in senso opposto, va evidenziato come tale ultimo procedimento autorizzatorio, secondo le richiamate interpretazioni giurisprudenziali, assorbe e sostituisce anche il procedimento di rilascio del titolo abilitativo edilizio, dovendo l’interessato limitarsi a presentare l’istanza di autorizzazione, nel cui procedimento rientra anche l’analisi di impatto paesistico che non assume un rilievo autonomo e ostativo, fatta eccezione per i vincoli paesaggistici specifici e per quelli che riguardano le servitù militari previsti dall’art. 86, comma 4, del citato D. Lgs. n. 259 del 2003 (in tal senso, proprio con riferimento alla disciplina vigente nella Regione Lombardia, cfr. Consiglio di Stato, VI, 15 dicembre 2009, n. 7944)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 471 del 19 febbraio 2021.
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Il TAR Milano precisa che <<L’elaborazione giurisprudenziale sul tema ha più volte chiarito che la regola generale è quella per cui soltanto colui che ha partecipato alla gara è legittimato ad impugnarne l'esito (essendo titolare di una posizione differenziata) e che i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi a identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento e a rendere attuale e concreta la lesione. Le eccezioni, che impongono l’onere di immediata impugnazione, possono essere ricondotte alle ipotesi in cui (i) si contesti in radice l'indizione della gara, (ii) si contesti che una gara sia mancata, (iii) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le stesse siano immediatamente escludenti (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 29 aprile 2019, n. 2732).
Devono, in altre parole, essere immediatamente impugnate le sole clausole immediatamente escludenti o che impediscono la partecipazione alla gara e la presentazione di un’offerta.
Come riconosciuto dalla citata Adunanza plenaria n. 4 del 2018, la giurisprudenza ha poi fatto rientrare nel genus delle “clausole immediatamente escludenti” anche le fattispecie di (a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale; (b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; (c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara, ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta; (d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente; (e) clausole impositive di obblighi contra ius; (f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (come, ad esempio, quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbito dall’aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di 0 pt.); (g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 29 aprile 2019, n. 2732; id., Sez. III, 28 settembre 2020, n. 5705)>>

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 387 del 11 febbraio 2021.
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Il TAR Brescia precisa che <<È pacifico in giurisprudenza che le convenzioni urbanistiche concretizzino un accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento previsto e disciplinato dall’articolo 11 L. n. 241/1990 (cfr., ex plurimis, T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. II, sentenza n. 1525/2018; T.A.R. Piemonte, Sez. II, sentenza n. 1090/2019; C.d.S., Sez. II, sentenza n. 5318/2020).
Come tali, le convenzioni urbanistiche sono assoggettate, ove non diversamente stabilito e nei limiti della compatibilità, ai principi generali in materia di obbligazioni e contratti, e, in particolare, quelli di correttezza e buona fede nell’esecuzione dell’accordo (cfr., C.d.S., Sez. III, sentenza n. 293/2014), e di tutela dell’affidamento della controparte sulla situazione venutasi a creare per effetto della conclusione dell’accordo medesimo (cfr., T.A.R. Abruzzo – Pescara, sentenza n. 107/2015). Il che vale, in particolar modo, nell’esercizio dell’autotutela decisoria, che va a incidere su un esistente assetto dei rapporti tra interesse pubblico e interesse privato, tra Amministrazione e amministrati (cfr., T.A.R. Sardegna, Sez. I, sentenza n. 214/2019).
Le convenzioni urbanistiche, ancorché dirette al perseguimento dell’interesse pubblico, presentano un ineludibile profilo negoziale, scaturendo dall’incontro di due volontà. L’interesse del privato concorre anch’esso a comporre la causa del negozio, e va salvaguardato nella fase esecutiva (cfr., T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. II, sentenza n. 1166/2020). Di conseguenza, la modifica delle condizioni convenzionali deve essere accettata da entrambi i patiscenti secondo i comuni principi civilistici (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 7298/2019).
Questo non significa che sia in assoluto precluso all’Amministrazione che è parte dell’accordo sostitutivo di rideterminarsi unilateralmente, ma implica che ove la rideterminazione sia collegata a una sopravvenienza, essa debba assumere le forme e le modalità dal recesso di cui al comma 4 del già citato articolo 11 della L. n. 241/1990, che essa contempli l’indennizzo per il contraente privato, e che sia assoggettata a un onere motivazionale rinforzato in ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico, proprio in ragione dell’affidamento ingenerato nella controparte>>.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 157 del 16 febbraio 2021.
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Il TAR Milano ribadisce che <<l’Amministrazione non può disapplicare le prescrizioni della lex specialis, neppure quando alcune di queste risultino inopportune o incongrue o comunque superate, fatta salva la sola possibilità di procedere all’annullamento delle regole di gara nell’esercizio del potere di autotutela>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 443 del 18 febbraio 2021.
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Il TAR Brescia, con riferimento a fattispecie relativa alla realizzazione di opere abusive eseguite su bene soggetto a vincolo culturale in difformità dall'autorizzazione ex art. 21 del d.lgs. n. 42 del 2004, precisa che; <<ai sensi dell'art. 160 comma 1, d.lg. n. 42 del 2004, la competenza ad adottare ordini di riduzione in pristino di opere eseguite in violazione di obblighi di protezione e conservazione stabiliti dagli artt. 20 e ss., Cod. Urbani appartiene direttamente al Ministero, senza interposizioni di sorta ad opera della locale Soprintendenza. Tale conclusione risulta confermata dalla previsione di cui all'art. 21, che attribuisce direttamente al Ministero il potere di ordinare la rimozione o la demolizione, anche con successiva ricostituzione, dei beni culturali. Sicché è evidente, per ovvie ragioni di simmetria, che la competenza ad ordinare riduzioni in pristino non può che essere attribuita alla stessa autorità titolare del potere autorizzatorio>>.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 141 del 9 febbraio 2021.
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Il TAR Milano esclude da una gara un operatore economico la cui offerta non era firmata elettronicamente in violazione del disposto della lettera di invito che prevedeva che “E’ obbligatorio l’apposizione, su tutta la documentazione di gara, della firma elettronica”.
Osserva al riguardo che <<In merito, poi, all’essenzialità della firma elettronica, la giurisprudenza (da ultimo TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 02.07.2019 n. 8605) ha chiarito che “5.5…..la previsione della necessità di apporre all’offerta economica, nell’ambito di una procedura di gara telematica, la firma digitale, la quale ha la ridetta funzione di garantire provenienza ed integrità del documento informatico, è tutt’altro che irragionevole ed “inutile”>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 396 del 12 febbraio 2021.
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Il TAR Milano, in un giudizio volto all’accertamento della sussistenza di un inadempimento contrattuale di un Comune per aver violato una clausola di concessione avente ad oggetto la realizzazione di un centro balneare estivo che riconosceva al concessionario la prelazione per un eventuale rinnovo, osserva:
<< Secondo parte resistente, in relazione alla natura di bene pubblico indisponibile del centro sportivo, la ricorrente non poteva ottenere il rinnovo della concessione, in accordo con i principi dell’ordinamento comunitario e con la L.R. n. 27/2006, potendo lo stesso essere affidato in gestione a terzi esclusivamente previa procedura ad evidenza pubblica.
Sul punto, il Collegio dà atto che, in linea generale, il debitore non è liberato dalla sua obbligazione a fronte di qualsiasi divieto, essendo ugualmente tenuto all’adempimento qualora lo stesso fosse ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all'atto dell’assunzione, ovvero, rispetto al quale, non abbia sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza o il rifiuto della pubblica autorità.
Nel caso di specie, il Comune non può tuttavia che disapplicare le disposizioni contrattuali che prevedono la proroga automatica della concessione, per contrasto con i principi eurounitari, dovendo infatti procedere all’esperimento di una procedura ad evidenza pubblica (C.S., Sez. VI, 18.11.2019, n. 7874), non essendo inoltre il divieto di rinnovo conoscibile al momento della loro approvazione.
Il ricorso va pertanto respinto, ricorrendo l’impossibilità di eseguire la prestazione, e l’assenza di colpa del debitore, riguardo alla determinazione dell'evento che l’ha determinata, ciò che, secondo la previsione degli art. 1218 e 1256 c.c., dà luogo alla sua liberazione.
Per quanto concerne la richiesta di indennizzo ... lo stesso potrebbe essere riconosciuto, quale alternativa al rinnovo della concessione, solo se quest’ultimo fosse ammissibile, laddove invece, essendo la clausola contrattuale che lo prevede tamquam non esset, non può essere riconosciuta alla società ricorrente alcuna indennità, né un risarcimento danni>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 415 del 15 febbraio 2021.
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Il TAR Milano ritiene illegittima un'ordinanza di demolizione di un  fabbricato adottata sul presupposto dell’avvenuta perdita di efficacia del titolo edilizio abilitativo, in assenza di una espressa dichiarazione di decadenza del predetto titolo disposta dal Comune.
Al riguardo precisa che:
<<in una fattispecie molto simile a quella oggetto del presente giudizio, il Giudice d’Appello ha evidenziato che si “pone il problema se la decadenza operi anche in assenza di un’apposita dichiarazione amministrativa, come sostenuto dal Comune con il conforto di una parte della giurisprudenza, soprattutto di primo grado (Cfr. Tar Sicilia Catania, Sez. I, 16 febbraio 2015, n. 528; Tar Sicilia Palermo, Sez. II, 14 marzo 2014, n. 746; Tar Lazio Roma, Sez. II bis, 28 giugno 2005, n. 5370), oppure necessiti di una dichiarazione, all’esito di un apposito procedimento (Cfr. Cons. St., Sez. V, 26 giugno 2000, n. 3612). Il Collegio intende aderire a quest’ultimo indirizzo, anche recentemente ribadito da questo Consiglio, secondo il quale l’operatività della decadenza della concessione edilizia necessita in ogni caso dell’intermediazione di un formale provvedimento amministrativo, seppur avente efficacia dichiarativa di un effetto verificatosi ex se e direttamente (Cfr. Cons. St. 22 ottobre 2015 n. 4823). Quanto alla necessaria interlocuzione con il privato attraverso gli appositi strumenti partecipativi (…), deve parimenti ricordarsi che la giurisprudenza ha avuto di modo di precisare che la perdita di efficacia della concessione di costruzione per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell’Amministrazione anche ai fini del necessario contraddittorio col privato circa l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che possono legittimarne la determinazione (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, sent. 12.05.2011, n. 2821; Cons. St., Sez. IV, sent. 29.01.2008, n. 249; Cons. St., Sez. VI, sent. 17.2.2006, n. 671). Alla luce dei principi innanzi ricordati deve osservarsi che nel caso di specie la perdita di efficacia della concessione di costruzione è desumibile solo indirettamente dal provvedimento impugnato, emesso senza alcuna comunicazione di avvio del procedimento, né alcun preavviso di rigetto dell’istanza in violazione [della normativa sul procedimento]. E’ dunque pacifico che l’amministrazione non ha mai emesso uno specifico provvedimento di decadenza, reso all’esito di un procedimento partecipato dalla parte privata. In particolare, è importante sottolineare l’assenza di ogni coinvolgimento della [parte] ricorrente, la quale ben avrebbe potuto rappresentare idonee ragioni atte, nella peculiarità del caso in esame, a portare in ipotesi ad una valutazione diversa della fattispecie (…). In altre parole, la mancata attivazione di un apposito procedimento e la conseguente mancata attivazione delle relative garanzie procedimentali non si risolve in un mero vizio formale, bensì in un effettivo pregiudizio alla posizione soggettiva [della parte privata]” (Consiglio di Stato, VI, 15 novembre 2017, n. 5285)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 401 del 12 febbraio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che <<Come precisato da costante giurisprudenza, la ravvisabilità di un interesse economico riferibile all’ausiliaria, nel contratto di avvalimento, è garanzia dell’effettività dell’impegno da quest’ultima assunto e, conseguentemente, della concreta titolarità dei requisiti di partecipazione alla gara in capo alla concorrente ausiliata. A tal proposito, si è infatti affermato che: «Preliminarmente, va precisato che la giurisprudenza amministrativa ha in più occasioni affermato che il contratto di avvalimento è un contratto tipicamente oneroso e, qualora in sede contrattuale non sia stabilito un corrispettivo in favore dell'ausiliaria, deve comunque emergere dal testo contrattuale un interesse - di carattere direttamente o indirettamente patrimoniale - che abbia indotto l'ausiliaria ad assumere senza corrispettivo gli obblighi derivanti dal contratto di avvalimento e le connesse responsabilità (così, Adunanza plenaria 4 novembre 2016, n. 23, nonché in seguito Cons. Stato, sez. V, 27 maggio 2018, n. 2953). Invero, l'onerosità del contratto è ritenuta indice della effettiva concessione delle risorse da parte dell'ausiliaria a favore della concorrente, e, per questo, idoneo (unitamente alla determinatezza del contenuto contrattuale) a fugare i dubbi sul carattere meramente formale della disponibilità delle ricorse che spesso circondano il ricorso all'avvalimento per l'acquisizione dei requisiti di partecipazione mancanti da parte di un concorrente» (Consiglio di Stato, 12 febbraio 2020 n. 1074).
5.3. Orbene, un contratto può definirsi oneroso nel momento in cui, alla prestazione che fa capo a una delle parti, corrisponde una controprestazione cui è tenuta, in termini corrispettivi, la controparte. La causa del contratto oneroso risiede nel nesso di sinallagmaticità che lega le due prestazioni, interdipendenti l’una dall’altra.
Il contratto di avvalimento risulta dunque oneroso laddove, alla prestazione del soggetto ausiliario (tipicamente consistente nel porre a disposizione della ditta concorrente i propri requisiti), si accompagna una corrispettiva prestazione dell’ausiliata in favore del primo soggetto.
La giurisprudenza sviluppatasi sul punto ha peraltro evidenziato come l’onerosità non richieda necessariamente la previsione di un corrispettivo diretto a carico dell’ausiliata; è tuttavia necessario che, quanto meno, dal negozio possa evincersi un interesse patrimoniale, anche indiretto, purtuttavia concreto ed effettivo, riferibile all’ausiliaria: «Il contratto di avvalimento presenta tipicamente un carattere di onerosità; tuttavia, non potrà automaticamente parlarsi di invalidità del contratto ogni qualvolta in sede contrattuale non sia stato espressamente stabilito un corrispettivo in favore dell’impresa ausiliaria: il negozio manterrà, infatti, intatta la sua efficacia ove dal testo contrattuale sia comunque possibile individuare l’interesse – di carattere direttamente o indirettamente patrimoniale – che ha indotto l’ausiliaria medesima ad assumere, senza corrispettivo, gli obblighi derivanti dal contratto di avvalimento e le connesse responsabilità. Dal tenore dell’accordo deve, dunque, potersi desumere l’interesse patrimoniale, che può avere carattere diretto (cioè consistere in un’utilità immediata) o anche solo indiretto, purché effettivo» (TAR Lazio, Roma, III, 6 dicembre 2019, n. 14019; cfr.: I, 2 dicembre 2016, n. 12069)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 395 del 12 febbraio 2021.
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Il TAR Milano precisa che <<Con riguardo all’ammissibilità dell’azione di mero accertamento, va poi richiamata una condivisibile giurisprudenza secondo la quale l'azione di accertamento, nel giudizio amministrativo, è esperibile solo laddove le azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela (Cons. St., Ad. Plen., n. 15 del 2011) e dunque a protezione di un interesse giuridicamente rilevante di chi agisce in giudizio diverso da quello consistente nell'eliminazione degli effetti del provvedimento, occorrendo altrimenti esperire l'azione di annullamento nel rispetto del termine decadenziale (cfr., ex plurimis, T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 7 ottobre 2020, n. 688; T.A.R. Liguria, Sez. II, 10 giugno 2020, n. 361)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 355 del 5 febbraio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano rimette alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità dell’art. 40 bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26 novembre 2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 371 del 10 febbraio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano aderisce alla <<lettura fatta propria dalla posizione maggioritaria della giurisprudenza, secondo la quale, anche ai fini della valutazione della distanza tra gli edifici, la sporgenza da terra dei manufatti va valutata sulla base della quota originaria del terreno, e non in relazione a quella risultante dal successivo riporto del costruttore. In proposito, si è infatti affermato che: «Per stabilire le distanze legali tra costruzioni sporgenti dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i criteri per la misurazione delle altezze dei fabbricati frontistanti, che devono essere determinate con riferimento al piano di posa, che è quello dell'originario piano di campagna e non la quota di terreno sistemato» (Consiglio di Stato, IV, 18 luglio 2019, n. 5034); «Ai fini dell'osservanza delle norme del codice civile sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera» (Consiglio di Stato, IV, 8 gennaio 2018, n. 72). Del resto, ove si tenesse in considerazione la quota artificialmente determinata in seguito all’esecuzione dell’intervento edilizio, dovrebbe ritenersi che lo stacco dell'edificio dal terreno non sia ancorato a dati certi e obiettivi, ma a scelte arbitrarie, e nella sostanza non sindacabili, del proprietario dell'immobile. Ciò che non risulta ragionevole, né consono ai principi di certezza del diritto e di tutela dell’armonico sviluppo del territorio.
Identiche considerazioni devono essere svolte con riferimento alla distanza del muro di contenimento, collocato a pochi centimetri dal confine della proprietà di parte ricorrente. Anche in questo caso, infatti, la giurisprudenza, in termini condivisi dal Collegio, ha precisato che: «In materia edilizia, la realizzazione di un muro di contenimento, creato artificialmente, costituisce costruzione in senso tecnico -giuridico e, conseguentemente, detta realizzazione è assoggettata alle norme sulle distanze legali di cui all'art. 873 c.c.» (Consiglio di Stato, VI, 6 marzo 2019, n.1549)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 186 del 21 gennaio 2021.


In ordine alle condizioni necessarie per configurare un grave errore professionale il TAR Milano osserva quanto segue.
<<L’art. 80, comma 5 lett. c), trova diretta corrispondenza nell’art. 57, comma 4 lett. c), della direttiva 2014/24, che consente alle stazioni appaltanti di escludere i partecipanti che abbiano commesso “gravi illeciti professionali”, riconoscendo così un ampio potere valutativo alle amministrazioni aggiudicatrici.
A ben vedere, la norma si pone in continuità con l’art. 38, comma 1 lett. f), del d.l.vo n. 163 del 2006, il quale prevedeva la non ammissione alle procedure di affidamento delle concessione e degli appalti di lavori, forniture e servizi, ovvero inibiva l’affidamento di subappalti o ancora la stipulazione dei relativi contratti per coloro che “secondo motivata valutazione della stazione appaltante … hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo da parte della stazione appaltante”, con la precisazione che, anche in tal caso, la norma costituiva attuazione della disciplina eurounitaria, atteso che l’art. 45, comma 2 lettera d), della direttiva 2004/18/CE, del 31 marzo 2004, pur rimettendo agli Stati membri la definizione delle condizioni di applicazione, consentiva l’esclusione dalla partecipazione all’appalto di “...ogni operatore economico...che, nell’esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall'amministrazione aggiudicatrice”.
Vale evidenziare che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza n. 470, del 18 dicembre 2014) ha puntualizzato che la nozione di “errore nell’esercizio dell’attività professionale” attiene a “... qualsiasi comportamento scorretto che incida sulla credibilità professionale dell’operatore e non soltanto le violazioni delle norme di deontologia in senso stretto della professione cui appartiene tale operato”.
Ecco, allora, che la ratio dell’art. 80, comma 5 lett. c), cit. risiede “nell'esigenza di assicurare l'affidabilità di chi si propone quale contraente, requisito che si ritiene effettivamente garantito solo se si allarga il panorama delle informazioni, comprendendo anche le evenienze patologiche contestate da altri committenti...” (così già: Consiglio di Stato, Sez. V, 11 aprile 2016, n. 1412).
La norma tende a consentire alla stazione appaltante un’adeguata e ponderata valutazione sull’affidabilità e sull’integrità dell’operatore economico, tanto che sono posti a carico di quest’ultimo i c.d. obblighi informativi: l’operatore è tenuto a fornire una rappresentazione quanto più dettagliata possibile delle proprie pregresse vicende professionali in cui, per varie ragioni, “gli è stata contestata una condotta contraria a norma” o, comunque, si è verificata la rottura del rapporto di fiducia con altre stazioni appaltanti (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407; Consiglio di Stato, sez. V, 4 febbraio 2019, n. 827; Id., 16 novembre 2018, n. 6461; Id., 24 settembre 2018, n. 5500; Id., 3 settembre 2018, n. 5142; Id., 17 luglio 2017, n. 3493; Id., 5 luglio 2017, n. 3288; Id., 22 ottobre 2015, n. 4870).
L’ampiezza della formulazione, sia della norma nazionale, sia dell’art. 57, comma 4 lett. c), della direttiva 2014/24, conduce a ricomprendere nella nozione di “grave illecito professionale” - ferma restando la necessaria valutazione discrezionale della stazione appaltante - ogni condotta, collegata all’esercizio dell’attività professionale, contraria ad un dovere posto da una norma giuridica sia essa di natura civile, penale o amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 24 gennaio 2019, n. 591; Consiglio di Stato, sez. III, n. 4192/17 e Id. n. 7231/2018).
La norma non reca una tassativa elencazione di ipotesi di grave errore professionale, sicché la stazione appaltante può addivenire all’esclusione dell’operatore economico, al di fuori di ogni tipizzazione normativa, ogni qual volta evidenzi, in esercizio della discrezionalità di cui dispone nella materia in esame, la riferibilità all’operatore di situazioni contrarie ad un obbligo giuridico di carattere civile, penale ed amministrativo, ritenute tali da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del concorrente (cfr. in argomento Consiglio di Stato, sez. V, 24 gennaio 2019, n. 591; Consiglio di Stato, sez. III, 27 dicembre 2018, n. 7231 e Id., sez. V, 3 settembre 2018, n. 5136).
Insomma, le citate disposizioni non contemplano un numero chiuso di “gravi illeciti professionali”, ma una serie aperta, cui deve essere data concretezza, di volta in volta, dalla stazione appaltante in esercizio della discrezionalità di cui dispone.
La giurisprudenza, cui aderisce il Tribunale (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. I, 24 luglio 2019, n. 1729), ha già precisato che l’art. 80, comma 5 lett. c), del d.l.vo 2016 n. 50 ha dilatato il potere valutativo discrezionale delle amministrazioni aggiudicatrici in tema di esclusione dei concorrenti, correlandone l’esercizio ad un “concetto giuridico indeterminato”, sicché spetta alle stazioni appaltanti declinare, caso per caso, la condotta dell’operatore economico “colpevole di gravi illeciti professionali” (cfr. sul punto, Consiglio di Stato, sez. III, 23 novembre 2017, n. 5467), fermo restando che, quando la stazione appaltante esclude un operatore economico, perché considerato colpevole di un grave illecito professionale, deve adeguatamente motivare l’esercizio di siffatta discrezionalità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 2 marzo 2018, n. 1299).
Quanto ai fatti oggetto di un procedimento penale, deve riconoscersi alla stazione appaltante la facoltà di escludere un concorrente per ritenuti “gravi illeciti professionali”, a prescindere dalla definitività degli accertamenti compiuti in sede penale, ferma restando la necessità che l’esclusione sottenda un’adeguata istruttoria e una congrua motivazione.
Va ribadito che qualsiasi condotta, di cui venga contestata dall’Autorità la contrarietà alla legge e collegata all’esercizio dell’attività professionale, è di per sé potenzialmente idonea ad incidere sul processo decisionale rimesso alle stazioni appaltanti sull’accreditamento dei concorrenti come operatori complessivamente affidabili (cfr. così Consiglio di Stato, Sez. III, 29 novembre 2018, n. 6787), a prescindere dall’esito dell’eventuale procedimento penale instaurato.
Corrispondentemente, la pendenza di un procedimento penale o la rilevanza penale dei fatti contestati dalla stazione appaltante non conducono ad un’espulsione automatica, ma ad una doverosa valutazione della loro incidenza sulla professionalità dell’operatore economico, valutazione che, con adeguata motivazione, deve dare conto delle ragioni dell’eventuale esclusione disposta (cfr. in argomento, Consiglio di Stato, sez. V, 3 settembre 2018, n. 5142)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 247 del 27 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che <<La generica indicazione di una esigenza abitativa della famiglia della ricorrente … non consente di applicare il principio posto dalla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, V, 21 luglio 2016 (Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria), secondo la quale, a certe condizioni, l’ordine di demolizione dell’immobile abusivo che sia residenza familiare dell’interessato può violare l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Difatti, laddove l’ordinaria sanzione per le violazioni in ambito edilizio sia la demolizione, la stessa si giustifica in base all’art. 8, comma 2, della Convenzione, come ingerenza prevista dalla legge, rappresentando perciò «una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui» (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, II, 4 agosto 2020 - ric. n. 44817/18; T.A.R. Puglia, Lecce, I, 16 aprile 2019, n. 614; per un riferimento, Consiglio di Stato, Ad. plen., 7 settembre 2020, n. 17).
Ciò appare in linea con l’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile di cui sia stata accertata l’abusività non contrasta affatto con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all’art. 8 della C.E.D.U., poiché da tale norma non può trarsi l’esistenza di un diritto assoluto ad occupare un immobile abusivo, solo perché casa familiare, non trattandosi nel caso in questione di proteggere il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, quanto della necessità di rimuovere la lesione di un bene costituzionalmente tutelato (il legittimo assetto del territorio) e di ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio violato (Cass. penale, III, 6 maggio 2016, n. 18949; altresì, T.A.R. Lazio, Roma, II bis, 18 settembre 2020, n. 9607)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 239 del 26 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Brescia ricorda che <<Ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento ambientale, infatti, "la giurisprudenza amministrativa, sulla scorta delle indicazioni derivanti dalla Corte di Giustizia UE, esclude l'applicabilità di una impostazione "penalistica" (incentrata sul superamento della soglia del "ragionevole dubbio") , trovando invece applicazione, ai fini dell'accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra attività industriale svolta nell'area ed inquinamento dell'area medesima, il canone civilistico del "più probabile che non" (cfr., ancora, in termini la sentenza n. 5668 del 2017 ed i precedenti ivi indicati). La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, nell'interpretare il principio "chi inquina paga" (che consiste nell'addossare ai soggetti responsabili i costi cui occorre far fronte per prevenire, ridurre o eliminare l'inquinamento prodotto), ha fornito una nozione di causa in termini di aumento del rischio, ovvero come contribuzione da parte del produttore al rischio del verificarsi dell'inquinamento.” (Cons. Stato, Sez. IV, 18 dicembre 2018, n. 7121).
L’individuazione del responsabile, quindi, può basarsi anche su elementi indiziari, in quanto la prova può essere data in via diretta o indiretta, ossia avvalendosi anche di presunzioni semplici di cui all'art. 2727 c.c., quali la vicinanza dell'impianto dell'operatore all'inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell'esercizio della sua attività (Conformi T.A.R. Sicilia Catania Sez. I, 15 settembre 2020, n. 2174; T.A.R. Lombardia Brescia Sez. I, 6 marzo 2020, n. 202; 31 luglio 2018, n. 766; T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, 2 dicembre 2019, n. 2562; T.A.R. Marche, Ancona, Sez. I, 6 febbraio 2017, n. 104)>>.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 123 del 5 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano precisa che grava sul Comune l’onere di motivare in maniera idonea e congrua in ordine alle ragioni che impongono l’aumento degli standard rispetto alle previsioni normative, in caso contrario risultando illegittima una tale scelta (cfr., ex plurimis, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 19 ottobre 2020, n. 1957; id., 3 luglio 2020, n. 1279; id., 20 aprile 2020, n. 654; id., 13 febbraio 2020, n. 305; Sez. IV, 30 luglio 2018, n. 1863). Difatti, “la motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il Comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge” (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 19 ottobre 2020, n. 1957; id., 15 luglio 2016, n. 1429; id., 12 novembre 2019, n. 2380); sempre per il TAR nella specifica fattispecie non è poi dirimente – né esclude la necessaria motivazione circa la scelta di sovradimensionamento – la considerazione che anche nel previgente strumento urbanistico gli standard fossero sovradimensionati: da un lato, il provvedimento impugnato consiste in un diverso e nuovo strumento urbanistico, basato su scelte diverse e autonomamente valutabili, dall’altro lato, il Comune si era comunque limitato ad enunciare genericamente una pre-esistente sovradotazione, senza effettuare un raffronto tra i due strumenti né illustrare i termini quantitativi delle scelte alla base dei due piani.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 226 del 25 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, in relazione all’obbligo di previsione della clausola sociale ex art. 50 del d.lgs 50 del 2016 e alla deroga prevista per i servizi diversi da quelli intellettuali, precisa che né la direttiva UE n. 24/2004 né il d.lgs. n. 50 del 2016 recano la precisazione di ciò che si intende per prestazione di natura intellettuale e sul punto la giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, precisa che:
<<- la natura “intellettuale” della prestazione non si esaurisce nel suo carattere “immateriale”, occorrendo anche che essa sia prevalentemente caratterizzata dal profilo professionale e, dunque, personale, della prestazione resa, sicché non presenta natura intellettuale la prestazione che implica una serie di attività standardizzate, inserite in una complessa organizzazione aziendale, in cui difetta un apporto personale e professionale del singolo operatore (cfr. Tar Lazio, sez. II quater, 03 dicembre 2018 n. 11717);
- i servizi di natura intellettuale postulano modalità essenzialmente consulenziali ed assenza di rischio (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14 ottobre 2019, n. 6955; Consiglio di Stato, sez. V, 19 gennaio 2017, n. 223);
- di conseguenza, non presentano natura intellettuale le attività che comprendono anche compiti materiali o “attività che comunque non richiedono un patrimonio di cognizioni specialistiche per la risoluzione di problematiche non standardizzate” (cfr. Tar Piemonte, sez. I, 25 luglio 2019, n. 843);
- “esemplificativamente, non possono essere considerate attività d’opera intellettuale quelle – routinarie – di installazione e aggiornamento del software delle macchine fornite, nonché quelle finalizzate alla loro connessione in rete” (cfr. giur cit.);
- non sono qualificabili come prestazioni intellettuali quelle che, pur immateriali, si risolvono nell’esecuzione di attività ripetitive, che non richiedono l’elaborazione di soluzioni ad hoc, diverse caso per caso, per ciascun utente del servizio, ma di eseguire compiti standardizzati (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. IV, 26 agosto 2019, n. 1919)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 191 del 21 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Secondo il TAR Milano, l’agibilità non può essere negata per ragioni afferenti all’inadempimento di obbligazioni nascenti dalla convenzione di lottizzazione, riguardanti aspetti del tutto estranei a quelli relative alle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, quali gli obblighi di cessione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 188 del 21 gennaio 2021.


Il TAR Milano precisa che in difetto di intervenuta prescrizione, il ritardo o persino l’indugio nell’esercizio da parte della Pubblica Amministrazione del diritto di credito possono comportare l’elisione della pretesa. Diversamente opinando, si finirebbe per dare ingresso nell’ordinamento al noto istituto, elaborato dalla dottrina e giurisprudenza tedesca, della Verwirkung. Figura che, tuttavia, non sembra poter trovare spazio nell’ordinamento italiano non soltanto per il difetto di una previsione esplicita, ma anche in considerazione della sussistenza di specifiche disposizioni che tutelano la posizione del debitore (cfr., ex aliis, artt. 1175, 1206 ss., 1375 c.c.), conferendo allo stesso appositi rimedi ed escludendo che, quindi, il mero indugio nell’esercizio della pretesa possa risultare ex se illegittimo (cfr., sulla figura in esame, TAR Milano, II, 30.5.2019, n. 1234).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 271 del 28 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano, con riferimento ai criteri interpretativi da utilizzare con riguardo ad una convenzione urbanistica, osserva in termini generali che:
 <<secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide, le convenzioni urbanistiche come quella in esame rientrano nel novero degli accordi tra privati e amministrazione, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr., ex multis: Cass. civ., I, 28.1.2015, n. 1615; Cass. civ., s.u., 9.3.2012, n. 3689; nella giurisprudenza di questa sezione, cfr. T.A.R. per la Lombardia - Milano, II, 18.6.2020, n. 1525: Id., 20.2.2020, n. 345). Tale qualificazione impone che l’interpretazione della convenzione avvenga utilizzando i criteri ermeneutici di cui agli articoli 1362 e ss. del codice civile, visto l’esplicito richiamo di cui al comma 2 dell’art. 11 medesimo, e come, del resto, confermato dalla giurisprudenza, sia di questo Tribunale sia del Consiglio di Stato (cfr., ex multis, T.A.R. per la Lombardia – Milano, II, 5.5.2015, n. 1103, e giurisprudenza ivi richiamata; Consiglio di Stato, IV, 17.12.2014, n. 6164)>>
Aggiunge quindi che:
<<11.2. L’operazione ermeneutica indicata al precedente punto deve, quindi, necessariamente prendere le mosse dalle disposizioni contenute all’interno dell’articolo 1362 c.c. a mente delle quali:
a) “nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”;
b) “per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
11.3. Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione chiarisce che: 
a) “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate” (cfr., Cass. civ. III, 19.3.2018, n. 6675); 
b) “il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacchè per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato” (Cfr. Cass. civ. III, 16.1.2007, n. 828; Id., I, 22.12.2005, n. 28479).
11.4. Inoltre, la Corte di Cassazione sottolinea che: “pur assumendo l'elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve invero a tal fine necessariamente riguardarlo alla stregua degli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare di quelli (quali primari criteri d'interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto: v. Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 27/6/2011, n. 14079; Cass., 23/5/2011, n. 11295; Cass., 19/5/2011, n. 10998; con riferimento agli atti unilaterali v. Cass., 6/5/2015, n. 9006) dell'interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell'interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c., avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta (cfr. Cass., 23/5/2011, n. 11295). Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di accertare il significato dell'accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio d'interpretazione del contratto (fondato sull'esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale") si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 6/5/2015, n. 9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 20/5/2004, n. 9628). A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell'accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947). Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701), con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372 c.c.)” (Cass. civ. III, 19.3.2018, n. 6675)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 223 del 25 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Secondo il TAR Milano <<l’impresa che partecipa ad una gara deve osservare una diligenza qualificata, ex art. 1176, comma 2, c.c., poiché la partecipazione ad una procedura ad evidenza pubblica è espressione dell’attività economica svolta in modo professionale.
Il professionista deve commisurare la propria condotta non al criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, ma a quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, c.c., (cfr. tra le tante, Cassazione civile, sez. III, 10 giugno 2016, n. 11906), quale modello astratto di condotta che si estrinseca, tanto se l’interessato è un professionista, quanto se è un imprenditore, nell’adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell’attività esercitata, volto all’adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell’interesse della controparte, nonché ad evitare possibili eventi dannosi.
Va ribadito che, per costante giurisprudenza, la diligenza “si specifica nei profili della cura, della cautela, della perizia e della legalità” (cfr. Cassazione civile, 31 maggio 2006, n. 12995) e deve valutarsi in concreto avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata e alle circostanze concrete del caso, in coerenza con il richiamato art. 1176, comma 2, c.c. (cfr. per tutte, Cassazione civile, sez. III, 15 giugno 2018, n. 15732).
Il grave errore, rilevante ex art. 80, comma 5 lett. c), attiene a vicende professionali in cui, per varie ragioni, è stata contestata all’operatore “una condotta contraria a norma” o, comunque, si è verificata “la rottura del rapporto di fiducia con altre stazioni appaltanti” (cfr. tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407).
Si è già evidenziato che l’ampiezza della formulazione, sia della norma nazionale, sia dell’art. 57, comma 4 lett. c), della direttiva 2014/24, conduce a ricomprendere nella nozione di “grave illecito professionale” ogni condotta, collegata all’esercizio dell’attività professionale, contraria ad un dovere posto da una norma giuridica sia essa di natura civile, penale o amministrativa (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 24 gennaio 2019, n. 591; Consiglio di Stato, III, n. 4192/17 e Id. n. 7231/2018).
E in tale concetto è sicuramente sussumibile la condotta del rappresentante legale, che in sede di partecipazione ad una gara, si accorda con altri operatori per la spartizione dei lotti da assegnare, così da vanificare la funzione della procedura ad evidenza pubblica.
Si tratta di una condotta non solo diametralmente opposta al dovere di buona fede, che informa l’azione degli operatori che partecipano ad una gara, ma, prima ancora, palesemente contraria ai parametri della diligenza qualificata che connotano l’attività di un operatore professionale>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 247 del 27 gennaio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.