Il TAR Milano, quanto al concetto di piena conoscenza dell'atto lesivo, precisa che: «lo stesso non deve essere inteso quale conoscenza piena ed integrale dei provvedimenti che si intende impugnare. Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di piena conoscenza - il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale - è la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso (T.A.R. Aosta, sez. I 13/11/2014, n. 76)» (nella fattispecie, sulla base dei documenti prodotti, risultava che i competenti uffici della Regione avevano trasmesso via mail la deliberazione impugnata agli enti locali e alle associazioni di categoria, tra cui anche al Consorzio ricorrente, e inoltre la Regione aveva prodotto diversi articoli di testate giornalistiche locali che recavano interviste al Presidente del Consorzio ricorrente che appariva pienamente edotto del contenuto della deliberazione e che aveva apertamente contestato per l’asserita lesività; dette circostanze hanno integrato, per il TAR, la conoscenza idonea a far decorrere il termine di impugnativa).


TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1724 del 29 settembre 2020.


La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Brescia precisa che la circostanza che «il vincolo preordinato all’esproprio sia decaduto ex lege non comporta la decadenza anche delle fasce di rispetto stradali connesse alla realizzazione dell’opera; e ciò in quanto, secondo consolidati principi giurisprudenziali, le fasce di rispetto stradali hanno natura di vincoli di carattere conformativo, e non espropriativo (T.A.R. Catania, sez. I , 22/10/2015, n. 2458; T.A.R. , Salerno, sez. II, 13/06/2013, n. 1276; T.A.R. Palermo, sez. III, 24/05/2013, n. 1167; T.A.R. Lecce, sez. I, 24/09/2009, n. 2156; T.A.R. Firenze, sez. III , 20/12/2012, n. 2110), e come tali non sono soggetti a decadenza ex lege per effetto del decorso del termine quinquennale di cui all’art. 9 d.p.r. 327/2001, ma conservano la propria efficacia a tempo indeterminato, fino all’intervento di una nuova pianificazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. IV, 18 maggio 2018, n. 3002; Consiglio di Stato, sez. IV, 12/04/2017, n. 1700; T.A.R. Napoli, sez. II, 27/12/2019, n. 6149; T.A.R. Torino, sez. II, 29/08/2014, n. 1457; T.A.R. Milano , sez. II , 30/11/2007, n. 6532)».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 657 del 24 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano precisa che "è inammissibile la notifica al controinteressato del ricorso, in modo diretto o a mezzo del servizio postale, presso l'ufficio pubblico dove presta servizio … non a mani proprie, ma con consegna dell'atto ad altra persona, anche addetta all'ufficio stesso, atteso che la possibilità prevista dall'art. 139, comma 2, c.p.c. di procedere alla notifica a mani di persona addetta all'ufficio si riferisce esclusivamente agli uffici dove l'interessato tratta i propri affari e non anche quello presso il quale il dipendente pubblico controinteressato presti lavoro subordinato (ex plurimis Consiglio di Stato sez. IV, 15 giugno 2016, n.2638).

Tali principi sono applicabili anche ove la notifica avvenga tramite invio alla casella di posta certificata dell'ufficio pubblico dove il controinteressato presta servizio, stante l'equivalenza dei mezzi di notificazione legislativamente prevista.

Non sussistono le condizioni per la concessione del beneficio dell'errore scusabile previsto dall'art. 37 c.p.a.: è infatti principio consolidato che tale istituto rivesta carattere eccezionale (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., nn. 33 del 2014, 32 del 2012, 10 del 2011, 3 del 2010), nella misura in cui si risolve in una deroga al principio fondamentale di perentorietà dei termini processuali, ed è soggetto a regole di stretta interpretazione, poiché i termini processuali sono stabiliti dal legislatore per ragioni di interesse generale e hanno applicazione oggettiva. In definitiva, i presupposti per la concessione dell'errore scusabile sono individuabili esclusivamente nell'oscurità del quadro normativo, nelle oscillazioni della giurisprudenza, in comportamenti ambigui dell'Amministrazione, nell'ordine del giudice di compiere un determinato adempimento processuale in violazione dei termini effettivamente previsti dalla legge, nel caso fortuito e nella forza maggiore, tutte circostanze che non ricorrono nel caso di specie e che comunque neppure sono state allegate".

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 1700 del 25 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano precisa che «è dibattuto in giurisprudenza il rapporto formale tra PEF ed offerta, nel senso che, da un lato, se ne sottolinea la stretta connessione con l’offerta, sì da considerarlo un elemento della proposta contrattuale (Cons. Stato, V, 13 aprile 2018, n. 2214), dall’altro canto, viene esclusa la sua natura di componente dell’offerta, considerandolo alla stregua di documento contenente la dimostrazione dell’esattezza delle valutazioni poste a base del calcolo di convenienza economica dell’affare (Cons. Stato, III, 6 agosto 2018, n. 4829). La questione va risolta non sul piano astratto, essendo ammissibili entrambe le tesi, quanto sul piano concreto, alla luce di quanto previsto negli atti di gara».

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 1690 del 24 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri



Il TAR Milano precisa che:

«Per costante giurisprudenza, il mutamento di destinazione d’uso da “industriale” a “commerciale”, anche senza realizzazione di nuove opere, integra una variazione tra categorie funzionali distinte e non omogenee che determina un incremento del carico urbanistico, soggiacendo, pertanto, all’onere di sopportare gli oneri concessori conseguenti all’aggravio del carico urbanistico; quindi, l’incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da un mutamento di destinazione d’uso senza opere, è presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in considerazione dell’aggravio urbanistico conseguente all’incremento dei flussi di traffico e di clientela che la destinazione commerciale, rispetto alla iniziale destinazione industriale, necessariamente implica (v. TAR Lazio, Sez. II, 19 settembre 2017 n. 9818). Come questo Tribunale ha già avuto modo di rilevare (Sez. IV, 10 giugno 2010 n. 1787), il “fondamento degli oneri di urbanizzazione non consiste nell’atto amministrativo in sé, bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità (cfr. T.A.R. Veneto, sez. II - 13/11/2001 n. 3699). Pertanto, anche nel caso della modificazione della destinazione d’uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione”.

Né induce a diverse conclusioni la previsione di cui all’invocato art. 52, comma 3, della L.R. n. 12 del 2005. La disposizione, invero, si limita a sancire che il mutamento di destinazione d’uso di un immobile attuato entro il termine di dieci anni dal momento di conclusione di precedenti lavori fa sorgere in capo all'operatore l'obbligo di versare "... il contributo di costruzione (...) nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione …". Quindi, lungi dal rendere gratuiti i mutamenti di destinazione d’uso senza opere intervenuti oltre il termine decennale ivi indicato, la previsione ha il solo effetto di ragguagliare alla “misura massima” la quota contributiva dovuta nel periodo anteriore alla scadenza decennale, limite che viene meno quando è decorso il decennio».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1674 del 21 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Brescia, preso atto che l’appalto in esame ha natura di appalto misto, di lavori e di servizi, e la struttura dei raggruppamenti temporanei è verticale in relazione ai lavori specialistici, che riguardano categorie scorporabili, e orizzontale per i lavori non specialistici e per i servizi, precisa:

«(b) la circostanza che i lavori non specialistici e i servizi siano riuniti in uno stesso insieme, rendendo per questa parte orizzontali i raggruppamenti temporanei, non consente di applicare ai requisiti di capacità professionale il criterio della prevalenza giuridica della componente economicamente più importante, nello specifico quella dei lavori;

(c) l’art. 28 comma 1, ultimo periodo, del Dlgs. 50/2016 richiede infatti per le gare relative ad appalti misti il possesso dei “requisiti di qualificazione e capacità prescritti dal presente codice per ciascuna prestazione di lavori, servizi, forniture prevista dal contratto”. Pertanto, i requisiti di qualificazione necessari per i lavori si combinano con i requisiti necessari per i servizi, nel senso che ogni requisito rimane invariato, ma si applica solo all’attività per cui è stato originariamente previsto dalla legge. I requisiti propri dell’attività prevalente non si estendono alle altre attività dell’appalto, e non si sostituiscono ai requisiti previsti per queste ultime (v. CS Sez. V 13 luglio 2020 n. 4501);

(d) ne consegue che per i raggruppamenti temporanei orizzontali solo la componente lavori è sottoposta alle quote minime di qualificazione di cui all’art. 92 comma 2 del DPR 207/2010;

(e) per i servizi, come per le forniture, non vi è una disciplina di legge che fissi quote di qualificazione minime all’interno dei raggruppamenti temporanei, né una disciplina di legge che imponga la corrispondenza tra la quota di qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza (v. CS Sez. V 21 agosto 2020 n. 5164; CS Sez. V 2 dicembre 2019 n. 8249). È dunque rimessa alla lex specialis l’alternativa tra la fissazione di quote minime per le singole imprese e il cumulo delle qualificazioni a livello di raggruppamento temporaneo;».

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 656 del 22 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



La Corte di Cassazione precisa che:

«Il negozio di cessione di cubatura costituisce la prima formula nella quale comincia ad ammettersi la possibilità di cessione dei diritti di natura edificatoria dai quali deriva, in favore dell'acquirente, un credito edilizio, ormai rappresentando soltanto una species rispetto al più ampio genus «diritti edificatori comunque denominati», al cui interno si intravedono figure giuridiche profondamente diverse, alcune delle quali Ric. 2018 n. 25485 sez. MT - ud. 29-01-2020 -13- saranno peraltro all'esame delle Sezioni Unite di questa Corte in ragione dell'ordinanza interlocutoria n.26016/2019 e che qui, tuttavia, non vengono in diretto rilievo. Ora, focalizzando la questione attorno alle ricadute fiscali correlate alla natura del negozio di cessione di cubatura che qui viene in rilievo, v'è da dire che l'adesione ad una piuttosto che ad altra teoria in ordine alla natura della cessione di cubatura (teoria del diritto di superficie, della "rinunzia" abdicativa o traslativa, o della servitù non aedificandi o altius non tollendi) renderebbe applicabili i criteri ordinari di tassazione con aliquota dell'8% dell'imposta di registro di cui all'art. 1, parte prima, allegato "A" del d.P.R. n. 131 del 1986 già sopra ricordati. Per converso, qualificando la fattispecie quale negozio ad effetti meramente obbligatori, si dovrebbe giungere alla conclusione di applicare l'art. 9 della tariffa stessa (che assoggetta ad aliquota del 3% gli atti diversi da quelli altrove indicati nella tariffa aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale). Orbene, la diversità di indirizzi giurisprudenziali dei quali si è dato conto sembrano dunque giustificare un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite in ordine alla questione di massima di particolare importanza, ex art. 374, comma 2, c.p.c., relativa alla qualificazione giuridica dell'atto dì cessione di cubatura ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro, apparendo altresì necessario indagare sui possibili effetti e sulla natura giuridica del diniego di autorizzazione da parte dell'amministrazione comunale rispetto all'eventuale imposizione fiscale applicata sul presupposto della qualificazione dell'atto di cessione come negozio immediatamente traslativo del diritto edfficatorio. Parimenti necessaria risulterà la verifica delle ricedute ai finì fiscali delle Ric. 2018 n. 25455 sez. MT - ud. 29-01-2020 -14- sopravvenienze di carattere urbanistico successive alla cessione. Non sembra, d'altra parte, al Collegio possibile operare una reductio ad unum dell'indirizzo espresso dalla sezione quinta civile con i risultati interpretativi stratificati presso la seconda sezione civile, ravvisandosi tra gli orientamenti dei quali si è dato conto un'antologica inconciliabilità che riverbera i propri effetti ai fini dell'applicazione della tipologia dei coefficiente previsto in tema di imposta di registro, rilevando l'alternativa secca fra atto traslativo e atto avente natura patrimoniale. Orbene, il conflitto anzidetto sembra potere giustificare il rinvio della decisione della causa alle Sezioni Unite, non discutendosi di un mero contrasto interno alla sezione tributaria».

Corte di Cassazione, Sez. Sesta, ordinanza interlocutoria n. 19152 del 15 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Corte di Cassazione, sezione SentenzeWeb.



Il Consiglio di Stato ricorda che: «secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente i c.d. volumi tecnici sono quelli esclusivamente adibiti alla sistemazione di impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione e che non possono essere ubicati all'interno della parte abitativa.

In relazione a tale ultimo aspetto la Corte di Cassazione ha precisato che, ai fini della nozione di « volume tecnico », assumono valore tre ordini di parametri: il primo, positivo e funzionale, attiene al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, consistono, da un lato, nell'impraticabilità di soluzioni progettuali diverse — nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte abitativa — e dall'altro lato, in un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.

Da ciò consegue che rientrano nella nozione in parola solo le opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, mentre non sono riconducibili alla stessa i locali, in specie laddove di ingombro rilevante, oggettivamente incidenti in modo significativo sui luoghi esterni. (ad es. Cass. penale n. 7217 del 2011).

In analoga prospettiva, la prevalente giurisprudenza amministrativa ha precisato che si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all'interno dell'edificio. (ad es. VI Sez. n. 175 del 2015).

Come si vedrà meglio in seguito, l’importanza della qualificazione di un volume come “tecnico” sta nel fatto che i volumi tecnici – purchè in rapporto di funzionalità necessaria rispetto alla costruzione cui ineriscono – non vanno computati nel calcolo della volumetria massima consentita, in quanto per definizione essi non generano autonomo carico urbanistico».

Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4358 del 7 luglio 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.





Il TAR Milano ricorda che:

«secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio le offerte “devono essere improntate alla massima linearità e chiarezza, onde prefigurare all’Amministrazione un quadro certo dei rispettivi doveri ed obblighi contrattuali in corrispondenza agli atti di gara”, e “qualsivoglia elemento che introduca nel sinallagma negoziale profili diversi vale a conferire all’offerta la natura di offerta indeterminata o condizionata che ne deve comportare l’esclusione dalla gara”, e ciò anche “a prescindere dalla presenza o meno nella legge di gara di un’espressa comminatoria di esclusione, stante la superiorità del principio che vieta le offerte condizionate e le rende inammissibili” (T.A.R. Lazio - Roma, Sez. II-ter, n. 5268/2016; T.A.R. Puglia - Lecce, Sez. III, n. 1428/2017; T.A.R. Veneto, Sez. I, n. 128/2019;T.A.R. Piemonte, Sez. I , n. 785/2011); ed invero, ammettere la possibilità di modificare la propria offerta nei termini sopra evidenziati equivarrebbe ad attribuire all’operatore economico la facoltà di modificare le condizioni già indicate e proposte in relazione alle differenti esigenze (o carenze della propria offerta) che possono verificarsi in corso di esecuzione, così integrando la violazione del fondamentale canone ermeneutico della par condicio competitorum, in quanto in tal modo l’operatore consegue un beneficio consistente nella possibilità di tenere ferma una duplice e differente modalità organizzativa della propria proposta, con evidente diversa allocazione dei costi a seconda dell’autonoma, spontanea e libera facoltà di scelta tra l’una o l’altra modalità di esecuzione del servizio» (nella fattispecie l’offerta proposta dalla controinteressata, alla luce delle giustificazioni dalla stessa fornite, risulta, per il TAR, formulata in maniera non univoca, atteso che, nella sostanza, vengono prospettate due distinte e alternative modalità di gestione del servizio, di cui solo una, peraltro, è stata resa nota tempestivamente, al momento della presentazione della domanda di partecipazione).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 1663 del 14 settembre 2020.

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Si allega il decreto del 16 settembre 2020 del Presidente del TAR Lombardia sullo svolgimento delle udienze presso il TAR Milano per il periodo dal 16 settembre 2020 fino al termine finale dello stato di emergenza epidemiologica.


Decreto 16 settembre 2020



Il TAR Brescia precisa che:

«Il potere di regolazione del territorio riservato ai Comuni è sovraordinato, e si impone all’interno della procedura di VIA, in quanto esprime scelte discrezionali sul migliore utilizzo del territorio. Quando però nello strumento urbanistico comunale entrano valutazioni di tipo ambientale e sanitario la situazione cambia, perché vi sono altre autorità che condividono il potere di stabilire se una certa attività economica sia compatibile con le caratteristiche dei luoghi e con il livello di rischio accettabile per la collettività. Il Comune non può utilizzare lo strumento urbanistico per decidere da solo, sostituendosi alle altre autorità e rendendo inutili le garanzie previste dall’ordinamento, tra cui la procedura di VIA;

(i) le suddette garanzie tutelano sia i diversi interessi pubblici coinvolti sia l’interesse economico dei soggetti che intendono avviare nuove attività produttive. Un’impostazione rigida come quella urbanistica, particolarmente se articolata mediante divieti astratti e presunzioni che non ammettono la prova contraria, è inadeguata a regolare da sola la realtà flessibile e dinamica delle attività produttive, le quali possono avere impatti molto diversi a seconda dei modelli organizzativi scelti e della tecnologia impiegata. Un divieto generalizzato per intere tipologie di attività agricole, oltretutto in un contesto non adatto a destinazioni diverse da quelle agricole produttive, appare una soluzione in contrasto con il principio di proporzionalità;

(j) la decisione sulle aspettative dei privati deve quindi essere riportata nella sede propria, ossia nella procedura di VIA, e nella successiva procedura di AIA, dove sono effettuate valutazioni sul caso concreto, e formulate prescrizioni in grado di fissare il punto di equilibrio tra la tutela ambientale e l’iniziativa economica;» 

Nella fattispecie è stata ritenuta illegittima una disciplina del PGT che, con riferimento alle zone agricole produttive, prevede lo svolgimento di attività di produzione di beni agroalimentari ad alta intensità e concentrazione, ma vieta la costruzione di nuovi allevamenti di tipo intensivo, allo scopo di tutelare le qualità geomorfologiche del territorio.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 643 del 15 settembre 2020.

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Il Consiglio di Stato con riferimento al c.d. stand still processuale ovvero la regola per la quale la proposizione di un ricorso giurisdizionale con istanza cautelare avverso il provvedimento di aggiudicazione ha l’effetto di impedire la stipulazione del contratto d’appalto per un termine di (almeno) venti giorni precisa:

«Tale regola … tutela l’interesse del concorrente non aggiudicatario impugnante l’aggiudicazione, poiché consente il primo vaglio giudiziario dei motivi di ricorso – in sede di decisione sull’istanza cautelare – a contratto non ancora concluso, e, quindi, in condizioni tali da poter assicurare al ricorrente tutela piena (in forma specifica) senza eccessiva compromissione dell’interesse pubblico come, invece, accadrebbe se fosse accolta l’istanza di sospensione dell’aggiudicazione con il contratto già stipulato e l’esecuzione avviata.

L’interesse dell’aggiudicatario – come quello, omogeneo, dell’amministrazione – alla celere stipulazione del contratto sono, dunque, destinati a recedere, ma il bilanciamento è garantito dalla durata limitata nel tempo e condizionata dello stand still.

Lo stand still comporta, allora, un impedimento procedimentale, ma, proprio per la necessità di bilanciare gli opposti interessi in precedenza descritti, delimitato alla stipulazione del contratto e non, invece, alle altre attività prodromiche alla stipulazione stessa quali la verifica dei requisiti ed ogni altro obbligo previsto dalla legge di gara a carico dell’aggiudicatario.

Sarebbe, infatti, eccessivamente pregiudicato l’interesse dell’amministrazione, e quello dello stesso aggiudicatario, se, nel tempo di durata dello stand still, non fosse consentito, oltre alla stipulazione del contratto, alcun’altra attività procedurale, considerato che ne verrebbe l’inevitabile allungamento dei tempi per la stipulazione quando, terminato il periodo di stand still per reiezione dell’istanza cautelare o per le altre ragioni previste dal legislatore, detta stipulazione divenisse subito possibile.

D’altronde, la diversa ricostruzione degli effetti dello stand still processuale non trova alcun riscontro nel dato normativo, ove l’impedimento è espressamente limitato alla stipulazione del contratto».

Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5420 del 9 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri




Il Consiglio di Stato, richiamando plurime sentenze, nelle quali sono già state compiutamente esposte le motivazioni che non consentono di condividere la tesi della predicabilità sistematica di una “usucapione pubblica” che si innesti su un procedimento espropriativo, osserva che 


«nelle menzionate decisioni è stato chiarito che comunque – a tutto concedere – in astratto una problematica di vaglio in ordine alla usucapibilità di beni appresi mercè l’occupazione dell’area innervata su un procedimento espropriativo non regolarmente conclusosi (ad esempio, come nel caso all’esame, per omessa emissione di un tempesti vo decreto di esproprio) potrebbe porsi laddove l’Amministrazione abbia posseduto ininterrottamente detto compendio immobiliare per il torno di tempo prescritto dal codice civile individuandosi quale dies a quo quello dell’entrata in vigore del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, il cui art. 43 ha sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva che costituiva una vera e propria fattispecie ablatoria seppure atipica.

7.2. Invero sino alla data di entrata in vigore del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327–come è noto – costituiva approdo consolidato in giurisprudenza quello per cui la trasformazione dell’area implicasse acquisto automatico della proprietà (appunto per accessione invertita, ex art. 938 c.c.) in capo all’Amministrazione del suolo sul quale l’opera pubblica era sorta.

Il privato spossessato, quindi, non avrebbe potuto validamente esercitare alcuna opzione reintegratoria specifica, e non avrebbe potuto conseguire la restituzione dell’area, in quanto già passata in proprietà dell’Amministrazione.

7.3. Anche in conseguenza degli approdi a cui è pervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ex multis sentenze CEDU Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia 30 maggio 2000, n. 31524/96; Sciarrotta c. Italia 12 gennaio 2006, n. 14793/02; Guiso-Gallisay c. Italia, 22 dicembre 2009, n. 58858/00; Soc. Immobiliare Podere Trieste c. Italia, 23 ottobre 2012, n. 19041/2004; Rolim Commercial S.A. c. Portogallo, 16 aprile 2013, n. 16153/2009), il Legislatore statale è intervenuto e, in virtù del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, è stato sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva.

7.5. Ciò implica, in primo luogo, che per tutte le occupazioni antecedenti alla entrata in vigore del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, il tempo durante il quale l’Amministrazione ha esercitato un potere materiale sul bene occupato (ed eventualmente, medio tempore, trasformato) in epoca precedente alla entrata in vigore del citato d.P.R., non vale ai fini del computo del termine per la maturazione della usucapione dell’area.

Ciò per una ragione dirimente: se è vero che l’istituto dell’usucapione risponde ad una esigenza di certezza giuridica, “premia” il possesso ininterrotto dell’area e “sanziona” l’inerzia del proprietario dell’area medesima, il quale non ha esercitato le condotte materiali e/o le iniziative giuridiche che dimostrano il suo interesse a mantenerne la titolarità, è evidente che tale istituto può operare soltanto nei casi in cui il privato possa esercitare i diritti posti a presidio della propria posizione.

E’ questo, un principio logico, oltre che di civiltà giuridica, che nel sistema giuridico italiano trova espresso conforto normativo sub art. 2935 c.c. “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.

Posto che, antecedentemente alla entrata in vigore del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, il privato proprietario non avrebbe potuto fare valere il proprio diritto alla restituzione, è del tutto logico che il tempo decorso (durante il quale l’Amministrazione ha, anche ininterrottamente detenuto il bene) prima di tale data non si computi ai fini della maturata usucapione».

Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 5430 del 11 settembre 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


La Corte di Giustizia UE statuisce che:

«L’articolo 2, paragrafo 1, punto 5, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE) 2017/2365 della Commissione, del 18 dicembre 2017, deve essere interpretato nel senso che esso non costituisce un fondamento giuridico per il rigetto dell’offerta di un offerente nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico per il solo motivo che il prezzo proposto nell’offerta è di EUR 0».

Corte di Giustizia UE, Sez. IV, del 10 settembre 2020 (causa C-367/19).

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Corte di Giustizia al seguente indirizzo.



L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato afferma con riferimento all’art. 38 del DPR 380 del 2001 che “i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”.

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 17 del 7 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano precisa che «Le controversie concernenti le distanze fra costruzioni o di queste dai confini, come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, sono assoggettate al “regime della c.d. “doppia tutela”, per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell’autore dell’attività edilizia illecita (con giurisdizione del giudice ordinario) e, dall’altro, dell’interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell’Amministrazione, con cui tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa, da far valere di fronte al giudice amministrativo” (Consiglio di Stato, IV, 14 gennaio 2016, n. 81; altresì, 3 agosto 2016, n. 3511; 31 marzo 2015, n. 1692; T.A.R. Lombardia, Milano II, 26 luglio 2017, n. 1680; 5 dicembre 2016, n. 2301). Peraltro, nella giurisdizione amministrativa i rapporti privatistici tra i confinanti vengono presi in esame solo quando siano per sé evidenti, o quando gli interessati abbiano di loro iniziativa rappresentato agli uffici comunali eventuali contese in grado di incidere sulla legittimazione a chiedere il titolo edilizio (T.A.R. Lombardia, Brescia, I, 26 marzo 2019, n. 276); difatti, l’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, richiedendo al Comune la verifica dell’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non impone di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma ha la finalità di consentire di accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso. In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla P.A. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio (T.A.R. Lombardia, Milano, II, 23 dicembre 2019, n. 2729).

Tuttavia, si deve escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, essendo necessaria soltanto una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex multis, Consiglio di Stato, V, 17 giugno 2014, n. 3096; IV, 6 marzo 2012, n. 1270; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 26 giugno 2019, n. 1486; 8 aprile 2019, n. 767; 21 gennaio 2019, n. 112; 13 settembre 2018, n. 2065; 31 gennaio 2017, n. 235; T.A.R. Campania, Napoli, VIII, 5 novembre 2015, n. 5137)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1643 del 4 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale «l’azione di condanna atipica, ossia finalizzata ad ottenere dall’Amministrazione il rilascio di un provvedimento – che si distingue nettamente dalla condanna di tipo pecuniario – deve essere dichiarata inammissibile allorquando non sia stata proposta contestualmente ad un’azione di annullamento, né ad un’azione avverso il silenzio (cfr. art. 34, comma 1, lett. c, secondo periodo, cod. proc. amm.; Consiglio di Stato, IV, 2 febbraio 2017, n. 444; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 8 gennaio 2019, n. 36; 22 gennaio 2018, n. 174; 31 gennaio 2017, n. 235)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1643 del 4 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, in  sede di verifica della legittimazione all’impugnazione di un permesso di costruire, precisa che «anche assumendo come sufficiente a radicare la legittimazione del confinante la sussistenza della condizione di vicinitas, la stessa “non deve essere verificata in base al solo dato “fisico” della distanza, poiché tale elemento deve essere in concreto valutato dal Giudice in relazione alla entità ed alla destinazione dell’immobile […] (dovendosi, al contrario, considerare anche le modificazioni di carico urbanistico e le conseguenze sul diritto alla salute e sulle ordinarie esigenze di vita che la nuova costruzione potrà apportare sui soggetti che hanno uno stabile collegamento con la zona interessata)” (Consiglio di Stato, IV, 26 aprile 2018, n. 2529; altresì, IV, 3 maggio 2019, n. 2891; 29 marzo 2019, n. 2100; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 4 dicembre 2019, n. 2294)».


TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1643 del 4 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano precisa che «in base all’orientamento maggioritario della giurisprudenza, non vi è interesse attuale e concreto all’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo del parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di liquidazione del compenso per prestazioni professionali rese, richiesto dall’avvocato ai fini della proposizione di una procedura monitoria, atteso che tale parere ha la sola funzione di precostituire la prova scritta necessaria per la proposizione di tale procedura e non è vincolante per il giudice civile (cfr. T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 10 aprile 2019, n. 782; T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, 7 marzo 2018, n. 580; T.A.R. Toscana, sez. II, 5 luglio, 2012, n. 1268)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1626 del 1° settembre 2020.

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Il TAR Brescia afferma l’illegittimità del procedimento di VAS correlato alla redazione di un P.G.T., con conseguente illegittimità derivata di quest’ultimo, per violazione della direttiva 2001/42/CE, degli artt. 5 e 7 commi 6 e 7 del d. lgs. n. 152 del 2006 e dell’art. 4 della l.r. n. 12/2005; ciò in quanto l’Autorità “procedente” e l’Autorità “competente” per la VAS sono state individuate all’interno della stessa amministrazione comunale nelle persone di due funzionari dello stesso Ufficio Tecnico, il primo dei quali superiore gerarchico del secondo e osserva al riguardo quanto segue:

«2. È noto che il d. lgs. n. 152/2006 (artt. 7 e ss.) e la l.r. Lombardia n. 12/2005 (art. 4) ripartiscono le competenze in materia di valutazione ambientale strategica, e cioè di valutazione degli effetti provocati sull’ambiente da determinati piani e programmi, tra l’autorità “competente” e l’autorità “procedente”: è autorità “competente” la pubblica amministrazione cui compete “l'elaborazione del parere motivato [di impatto ambientale], nel caso di valutazione di piani e programmi” (art. 5 comma 1 lett. p) d. lgs. 152/2006); è autorità “procedente” la pubblica amministrazione “che elabora il piano, programma” soggetto a valutazione di impatto ambientale, ovvero quella “che recepisce, adotta o approva il piano, programma” (art. 5 comma lett. q) d. lgs. 152/2006).

Tra i requisiti dell’autorità “competente”, l’art. comma 3-ter della l.r. Lombardia n. 12/2005 individua, in particolare, quello della “separazione rispetto all'autorità procedente” e quello del possesso di un “adeguato grado di autonomia”, pur prevedendo, peraltro, che la medesima autorità è “individuata prioritariamente all'interno dell'ente di cui al comma 3-bis”, cioè all’interno dell’autorità “procedente”.

3. Sulla scorta di tali disposizioni, è orientamento giurisprudenziale consolidato quello secondo cui “L'autorità competente alla v.a.s. non deve essere necessariamente individuata in una p.a. diversa da quella avente qualità di autorità procedente, anche nel caso in cui quest'ultima consista in un ente locale di ridotte dimensioni con un limitato numero di funzionari a disposizione” (Consiglio di Stato, sez. IV, 17/09/2012, n. 4926; T.A.R. Brescia, sez. I, 12/01/2016, n. 24; T.A.R. Milano, sez. II, 05/03/2019, n. 461), e ciò in quanto le funzioni delle due autorità non sono in rapporto di contrapposizione o di controllo; la distinzione ha invece la finalità di assicurare che, attraverso la collaborazione o lo scambio di informazioni, entrino nella valutazione ambientale tutti gli apporti tecnici necessari.

4. Questa impostazione può ritenersi oggi codificata nel sopra citato art. 4 comma 3 ter, della l. reg. Lombardia n. 12/2005, che prevede “in via prioritaria” la concentrazione delle due autorità nello stesso ente; previsione in cui non si ravvisano profili di contrasto con la normativa nazionale e con le direttive comunitarie, dal momento che la separazione che garantisce l'autonomia dell'autorità competente è quella funzionale, la quale a sua volta deriva dal possesso di una particolare qualificazione tecnico-professionale, che sia esercitabile secondo le regole tecniche della pianificazione, senza interferenze di altra natura.

5. Peraltro, secondo principi giurisprudenziali altrettanto consolidati e già condivisi da questo TAR, “Condizione perché la scelta dell'autorità competente non violi i canoni comunitari è che tra l'autorità competente e l'autorità procedente, anche se appartenenti alla stessa Amministrazione, sussista un adeguato grado di autonomia” (TAR Brescia, sez. I, 12 dicembre 2019, n. 1066; TAR Brescia, sez. I, 27 giugno 2018, n. 625)».

(Nel caso di specie sono stati designati quali autorità competente e autorità procedente in materia di VAS due funzionari incardinati entrambi all'interno dell’Ufficio Tecnico comunale, dei quali l’uno, designato quale autorità competente posto in “rapporto gerarchico di dipendenza” (come da organigramma comunale) rispetto all'altro, designato quale autorità procedente, il che esclude, per il TAR, di per sé la sussistenza dell'adeguato grado di autonomia dell’autorità competente rispetto all'autorità procedente preteso dalla normativa regionale e dalla consolidata giurisprudenza amministrativa quale condizione di legittimità della individuazione delle due autorità in questione all'interno della stessa pubblica amministrazione.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 628 del 1° settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Secondo il TAR Brescia, ancorché la bonifica inerisca ad operazioni distinte dalla rimozione dei rifiuti abbandonati, in concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione dei rifiuti abbandonati e l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali; i rifiuti non controllati devono infatti essere presi in esame come potenziali cause di superamento delle CSC, o come fattori di un rischio imminente di contaminazione; è quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno competenza sulla bonifica.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 523 del 6 luglio 2020

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