Il TAR Brescia osserva che:
<<Come già chiarito nell’ordinanza cautelare n. 384/2020 di questo Tribunale, “le convenzioni urbanistiche sono contratti con effetti permanenti, a cui nessuna delle parti può sottrarsi unilateralmente. La previsione di un termine decennale costituisce un parametro temporale che qualifica come rilevante l’inadempimento delle parti rimaste inerti”.
La convenzione di lottizzazione, rientrando nel genus degli accordi ex art. 11 l. 241/1990, è, infatti soggetta ai “principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti” e, quindi, anche alla disciplina in materia di risoluzione del contratto.
Non potendo trovare nel caso di specie applicazione l’art. 1457 c.c., non avendo le parti attribuito natura essenziale al termine decennale fissato in convenzione per l’esecuzione dei lavori, la semplice scadenza dello stesso non determina sic et simpliciter la risoluzione del contratto.
Piuttosto, a fronte di un inadempimento imputabile, qual è il ritardo nell’esecuzione dei lavori, potrebbe, ricorrendone i presupposti, trovare applicazione l’art. 1453 c.c. che attribuisce alla parte non inadempiente il potere di sciogliere il vincolo contrattuale.
Trattasi, tuttavia, di strada non percorribile da parte di -OMISSIS- giacché la mancata esecuzione dei lavori è alla stessa addebitabile.
Non risulta, parimenti, condivisibile l’affermazione per cui il contratto si sarebbe sciolto alla luce del venir meno della causa del contratto, non essendo state indicate sopravvenienze tali da consentire già in astratto di poter affermare essere venuta meno la ragione concreta a base della convenzione in esame; in ogni caso la causa del contratto non è data dalla somma degli opposti interessi ma dalla loro sintesi, motivo per cui il venir meno dell’interesse in capo alla ricorrente all’accordo concluso non determina, per ciò solo, il venir meno dell’elemento funzionale dell’accordo, soprattutto quando, come nel caso di specie, gli altri contraenti conservino un interesse alla realizzazione del programma negoziale, come del resto risulta dal fatto che i lottizzanti minori hanno chiesto al Comune di prorogare la convenzione.>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1153 del 18 novembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che l’articolo 32, comma 4, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, prevede che “ciascun concorrente non può presentare più di un’offerta”. Il principio di unicità dell’offerta, che impone agli operatori economici di presentare una sola proposta tecnica e una sola proposta economica, al fine di conferire all’offerta un contenuto certo ed univoco, è posto a presidio – da un lato – del buon andamento, dell’economicità e della certezza dell’azione amministrativa, per evitare che la stazione appaltante sia costretta a valutare plurime offerte provenienti dal medesimo operatore economico, tra loro incompatibili, e che perciò venga ostacolata nell’attività di individuazione della migliore offerta e – dall’altro – a tutela della par condicio dei concorrenti, poiché la pluralità delle proposte attribuirebbe all’operatore economico maggiori possibilità di ottenere l’aggiudicazione o comunque di ridurre il rischio di vedersi collocato in posizione deteriore, a scapito dei concorrenti fedeli che hanno presentato una sola e univoca proposta corrispondente alla prestazione oggetto dell’appalto, alla quale affidare la loro unica ed esclusiva chance di aggiudicazione. La presentazione di un’unica offerta capace di conseguire l'aggiudicazione, infatti, è il frutto di un’attività di elaborazione nella quale ogni impresa affronta il rischio di una scelta di ordine tecnico, che la stazione appaltante rimette alle imprese del settore, ma che comporta una obiettiva limitazione delle possibilità di vittoria (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 14 settembre 2010, n. 6695; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 25 maggio 2020, n. 928; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 11 febbraio 2019, n. 193).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2594 del 22 novembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che la giurisprudenza ha affermato che i motivi di ricorso non devono essere necessariamente rubricati in modo puntuale, né devono essere espressi con formulazione giuridica assolutamente rigorosa, bastando che siano esposti con specificità sufficiente a fornire almeno un principio di prova utile alla identificazione delle tesi sostenute a supporto della domanda finale, come altresì previsto dall’art. 40 c.p.a. nel quale si richiede l’esposizione dei motivi specifici su cui si fonda il ricorso (cfr. Consiglio di Stato, III, 25 ottobre 2016, n. 4463; VI, 9 luglio 2012, n. 4006; T.A.R. Lombardia, Milano, IV, 4 ottobre 2022, n. 2178; II, 24 ottobre 2021, n. 2410; anche Consiglio di Stato, III, 7 luglio 2022, n. 5650).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2626 del 24 novembre 2022.


Il TAR Milano, dopo aver effettuato la ricognizione del quadro normativo che disciplina l’affidamento in house, osserva che:
<<La giurisprudenza, interna ed eurounitaria, formatasi sul tema dell’affidamento in house, ha chiarito che la legittima applicazione dell’istituto postula l’effettiva sussistenza di un “controllo analogo”, anche nelle declinazioni del controllo a cascata e del controllo analogo congiunto, con la precisazione che esso si sostanzia in una forma di eterodirezione della società, tale per cui i poteri di governance non appartengono agli organi amministrativi, ma “al socio pubblico controllante”, che si impone a questi ultimi con le proprie decisioni (così Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 6460/2020).
Il controllo analogo è tale se, per effetto della sua concreta modulazione, la società affidataria non è terza rispetto all’ente affidante, ma una sua articolazione, sicché tra socio pubblico controllante e società sussiste “una relazione interorganica e non intersoggettiva”, perché il controllo esercitato deve corrispondere a quello che l’ente pubblico esplica sui propri servizi.
La giurisprudenza eurounitaria specifica che tale relazione deve intercorrere tra soci affidanti e società, “non anche tra la società e altri suoi soci (non affidanti o non ancora affidanti), rispetto ai quali la società sarebbe effettivamente terza” (Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 6 febbraio 2020 cause C-89/19 e C-91/19).
Va, inoltre, osservato che le norme citate, laddove si riferiscono al “controllo analogo congiunto”, confermano quanto già stabilito dalla Corte di Giustizia (sin dalla sentenza 18 novembre 1999, C-107/98 - Teckal), la quale ha ammesso che, in caso di società partecipata da più enti pubblici, il controllo analogo possa essere esercitato in forma congiunta (cfr. anche sentenza 13 novembre 2008 nella causa C-324/07 - Coditel Brabant SA).
La Corte precisa che a tal fine non possono ritenersi adeguati i poteri a disposizione dei soci secondo il diritto comune, sicché è necessario dotare i soci affidanti di appositi strumenti che ne consentano l’interferenza in maniera penetrante nella gestione della società.
Il profilo ora introdotto – rilevante nel caso di specie – deve essere esaminato tenendo conto dell’art. 11, comma 9, lett. d), del citato d.l.vo n. 175 del 2016, che ha introdotto il divieto per gli statuti delle società a controllo pubblico di “istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società”.
Nondimeno, la giurisprudenza esclude la riferibilità della disposizione agli organismi in house, sicché il controllo analogo può essere realizzato anche attraverso l’istituzione, ad opera dei soci pubblici, di organi speciali ad esso funzionali.
In tal senso, si sostiene (cfr. Consiglio di Stato, 30 aprile 2018, n. 2599 e 16 luglio 2020, n. 8028) che l’esclusione, per gli organismi in house, del divieto di istituire organi speciali discenda dai seguenti profili: a) il divieto è previsto in relazione alle “società a controllo pubblico” regolate appunto dall’art. 11 e non è ripetuto nell’art. 16 dedicato alle società in house, la cui disciplina risulta, pertanto, speciale e derogatoria; b) a differenza delle società a controllo pubblico, per le quali, l’art. 2, comma 1, lett. m), del d.l.vo n. 175 del 2016 richiede che il controllo si esplichi nelle forme dell’art. 2359 cod. civ., le società in house sono sottoposte a quella forma particolare di controllo pubblico che è costituita dal controllo analogo (come chiaramente precisato dall’art. 2, comma 1, lett. o) d.lgs. n. 175 del 2016).
Il tema è rilevante, in quanto la giurisprudenza ha precisato che una partecipazione “pulviscolare” sia in principio inidonea a consentire ai singoli soggetti pubblici partecipanti di incidere effettivamente sulle decisioni strategiche della società, cioè di realizzare una reale interferenza sul conseguimento del c.d. fine pubblico di impresa in presenza di interessi potenzialmente contrastanti e, quindi, a palesare la sussistenza di un controllo analogo almeno congiunto.
Nondimeno, proprio in ragione della non riferibilità dell’art. 11, comma 9, lett. d), del citato d.l.vo n. 175 del 2016 agli organismi in house, si è chiarito che i soci pubblici ben possono sopperire a detta debolezza stipulando patti parasociali al fine di realizzare un coordinamento tra loro, in modo da assicurare il “loro controllo sulle decisioni più rilevanti riguardanti la vita e l’attività della società partecipata” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 23 gennaio 2019, n. 578).
La tipizzazione normativa e l’elaborazione giurisprudenziale hanno condotto ad enucleare diverse “forme di in house” connotate da specificità rispetto all’ in house “tradizionale” (sul punto Consiglio di Stato, sez. I, 26 giugno 2018, n. 1645).
Si è già detto che l’art. 5, comma 2, del d.l.vo 2016 n. 50 introduce il c.d. “in house a cascata” caratterizzato dalla presenza di un controllo analogo “indiretto”, ossia esercitato da una persona giuridica diversa da quella affidante, ma a sua volta controllata allo stesso modo da quest’ultima.
In altri termini, l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo analogo sull’organismo in house; anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è comunque ammesso l’affidamento diretto.
Sul punto, vale ricordare che già in passato la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 11 maggio 2006 C-340/04) configurava un legittimo controllo analogo anche in caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo, determinandosi così un in house a cascata.
E’ configurabile, inoltre, il c.d. “in house frazionato o pluripartecipato”, che trova fondamento positivo nel citato art. 5, commi 4 e 5, ed è centrato sul concetto di “controllo congiunto”, i cui caratteri sono definiti dalle disposizioni appena richiamate.
Si definisce “in house invertito o capovolto” quello descritto dall’art. 5, comma 3, del d.l.vo 2016 n. 50, che si verifica quando il soggetto controllato, essendo a sua volta amministrazione aggiudicatrice, affida un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza pubblica.
Questa ipotesi evidenzia una sorta di bi-direzionalità dell’in house; la cui giustificazione risiede nel fatto che mancando una relazione di alterità, i rapporti tra i due soggetti sfuggono al principio di concorrenza qualunque sia la “direzione” dell’affidamento.
Diverso è il c.d. “in house orizzontale”, che presuppone la presenza di tre soggetti.
Un soggetto A aggiudica un appalto o una concessione a un soggetto B, ma tanto A quanto B sono controllati da un altro soggetto C, secondo i canoni propri del controllo analogo.
In tale ipotesi non vi è alcuna relazione diretta tra A e B, ma entrambi sono in relazione di in house con il soggetto C, che così controlla sia A, sia B. Insomma, l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro (cfr. giur cit.).>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2535 del 15 novembre 2022.


Il TAR Milano osserva che:
<<Secondo la concezione tradizionale, la figura della “ristrutturazione edilizia” presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa dalla giurisprudenza la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, ha profondamente innovato la disciplina modificando l’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale stabilisce ora che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione, qualificando come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli di ricostruzione, consente di sostituire gli immobili in precedenza andati distrutti con nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la realizzazione di nuove costruzioni. Si tutela in questo modo, non solo l’interesse del privato, ma anche l’interesse pubblico volto ad evitare la permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa qualificarsi come ristrutturazione, è necessario che il nuovo edificio abbia le stesse dimensioni di quello crollato. Questa limitazione si ricava dall’ultima parte della norma la quale, come visto, richiede che sia possibile accertare la “preesistente consistenza” dell’immobile.
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente è stata respinta proprio in quanto si è ritenuta non dimostrata la preesistente consistenza dell’immobile, per risolvere la controversia in esame, occorre stabilire cosa si intenda per “preesistente consistenza”, quale sia il livello di precisione preteso dalla norma con riguardo a tale elemento e in che modo ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione di “preesistente consistenza”), possono ritenersi condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza secondo cui gli interventi di ripristino di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 sono ammissibili a condizione che siano determinabili le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente (fra cui volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancanza di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma. Parimenti condivisibile risulta l’affermazione secondo cui la verifica riguardante gli elementi necessari per determinare la preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (cfr. Cass. pen. Sez. III, 28 aprile 2020, n. 13148; id., 8 ottobre 2015, n. 45147).
Quando l’edificio crollato è stato realizzato a seguito del rilascio di un titolo edilizio, la preesistente consistenza può essere facilmente dimostrata mediante la produzione di quel titolo e della documentazione progettuale ad esso allegata nella quale sono riportate con precisione le caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso in esame, l’immobile sia stato edificato in epoca antecedente all’anno 1967, quando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, non essendo in questo caso possibile disporre della suindicata documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste specifiche ipotesi, l’amministrazione non possa pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale, fermo restando ovviamente che, anche in questo caso, la prova deve comunque riguardare tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da quella consistente nella documentazione progettuale (e che inevitabilmente possiede un minor grado di precisione rispetto a quest’ultima) è del resto ammessa anche dalla giurisprudenza sopra richiamata la quale afferma che la prova della preesistente consistenza può essere fornita anche attraverso la produzione di aerofotogrammetrie (cfr. Cass. pen. Sent. n. 45147 del 2015 cit.). Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza del giudice amministrativo, il quale ammette che l’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato può fondarsi anche su documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio distrutto (in tal senso, cfr. T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 6 luglio 2020, n.517; T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 23 dicembre 2019, n. 6098; T.A.R. Liguria, sez. I, 11 giugno 2020, n. 364).
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento di queste diverse prove, l’Amministrazione debba dare applicazione ai principi di buona fede e proporzionalità, tenendo conto anche delle caratteristiche dell’intervento che si intende realizzare, nel senso che il livello di precisione richiesto della prova fornita deve essere proporzionale all’importanza di tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se l’immobile che si intende realizzare ha dimensioni modeste e incide in maniera poco significativa sul carico urbanistico, il permesso di costruire deve essere rilasciato quando dalla documentazione prodotta in sede procedimentale emerga che il manufatto da realizzare avrà sostanzialmente le stesse dimensioni di quello andato distrutto, e ciò anche nel caso in cui non sia possibile risalire con estrema precisione a tutti i dati dimensionali di quest’ultimo.>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2566 del 18 novembre 2022.




Il TAR Milano ricorda che, come precisato dalla giurisprudenza, gli appalti pubblici devono pur sempre essere affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, giacché le acquisizioni in perdita porterebbero inevitabilmente gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre che ad un probabile contenzioso: laddove i costi non considerati o non giustificati siano tali da non poter essere coperti neanche tramite il valore economico dell’utile stimato, è evidente che l’offerta diventa non remunerativa e, pertanto, non sostenibile (Consiglio di Stato, VI, 4 aprile 2022, n. 2442; anche, III, 10 luglio 2020, n. 4451).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2567 del 18 novembre 2022.


Il TAR Milano, con riferimento alla composizione della commissione per l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense, ritiene che:
<< per effetto dell’art. 47 L. 247/2012, applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto di causa, il principio di piena fungibilità deve ritenersi abrogato. In virtù del nuovo assetto normativo, è pertanto illegittimo l’operato delle sottocommissioni nelle quali non siano presenti tutte le tre provenienze professionali di cui all’art. 47 medesimo: «dalla intervenuta abrogazione del suddetto principio di fungibilità dei commissari di esame contenuto sub art. 22 comma V del r.d.l. n. 1578/1933 e non riprodotto nel vigente art. 47 della legge n. 247/2012 consegue quindi che è viziato l'operato delle sottocommissioni di esame che procedano alla elaborazione dei subcriteri, alla correzione degli elaborati scritti ed alla celebrazione dell'esame orale in assenza di commissari appartenenti a ciascuna delle categorie professionali indicate sub art. 47 della legge n. 247/2012» (Ad. Plen., 18/2018, cit.).>>

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2586 del 21 novembre 2022.


Il TAR Brescia osserva che:
<<pare opportuno operare l’analisi intorno all’applicabilità dell’art. 103, co. 2-bis, del D.L. n.18/2020 dal dato normativo; la norma in esame afferma che “Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, in scadenza tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020, sono prorogati di novanta giorni. La presente disposizione si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98”.
Mentre la prima parte della disposizione, ossia quella che dispone la proroga di 90 giorni, fa riferimento alle convenzioni la cui scadenza è fissata “tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020”, la seconda parte, che inerisce specificamente alle convenzioni che, come quella rilevane nel caso di specie, “hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69”, esordisce con la frase “La presente disposizione si applica anche ai diversi termini”.
Risulta evidente, quindi, come la cornice temporale fissata dalla prima parte della disposizione non vale per le convenzioni che “hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69”, diversamente non avrebbe alcun senso il riferimento “ai diversi termini”; sarebbe stato, infatti, sufficiente dire che “La presente disposizione si applica anche alle convenzioni di lottizzazione …”, ma così non è.
Evidente l’intento che sorregge l’intervento normativo, ossia quello di allargare la platea delle convenzioni per le quali opera la proroga.>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1153 del 18 novembre 2022.


La Corte di Giustizia UE statuisce:
<<1) L’articolo 18, paragrafo 1, e l’articolo 21, paragrafo 1, in combinato disposto con l’articolo 50, paragrafo 4, e l’articolo 55, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE,
devono essere interpretati nel senso che:
essi ostano a una normativa nazionale in materia di aggiudicazione di appalti pubblici la quale imponga che, con la sola eccezione dei segreti commerciali, le informazioni trasmesse dagli offerenti alle amministrazioni aggiudicatrici siano integralmente pubblicate o comunicate agli altri offerenti, nonché a una prassi delle amministrazioni aggiudicatrici consistente nell’accogliere sistematicamente le richieste di trattamento riservato motivate da segreti commerciali.
2) L’articolo 18, paragrafo 1, l’articolo 21, paragrafo 1, e l’articolo 55, paragrafo 3, della direttiva 2014/24,
devono essere interpretati nel senso che l’amministrazione aggiudicatrice:
– deve, al fine di decidere se rifiutare, a un offerente la cui offerta ammissibile sia stata respinta, l’accesso alle informazioni presentate dagli altri offerenti in merito alla loro esperienza pertinente e alle relative referenze, all’identità e alle qualifiche professionali del personale proposto per eseguire l’appalto o dei subappaltatori, nonché alla concezione del progetto la cui realizzazione è prevista nell’ambito dell’appalto e alle modalità di esecuzione di quest’ultimo, valutare se tali informazioni abbiano un valore commerciale che non si limita all’appalto pubblico di cui trattasi, informazioni la cui divulgazione può pregiudicare legittimi interessi commerciali o la concorrenza leale;
– può, inoltre, rifiutare l’accesso a tali informazioni qualora la divulgazione di queste ultime, ancorché prive di siffatto valore commerciale, ostacoli l’applicazione della legge o sia contraria all’interesse pubblico, e
– deve, in caso di rifiuto dell’accesso integrale alle informazioni, concedere a detto offerente l’accesso al contenuto essenziale delle stesse informazioni, di modo che sia garantito il rispetto del diritto a un ricorso effettivo.
3) L’articolo 18, paragrafo 1, della direttiva 2014/24, in combinato disposto con l’articolo 67, paragrafo 4, di quest’ultima,
deve essere interpretato nel senso che:
esso non osta a che siano incluse, nei criteri di aggiudicazione dell’appalto, la «concezione dello sviluppo del progetto» la cui realizzazione è prevista nell’ambito dell’appalto pubblico di cui trattasi e la «descrizione delle modalità di esecuzione» di tale appalto, a condizione che tali criteri siano accompagnati da specifiche che consentano all’amministrazione aggiudicatrice una valutazione efficace ed obiettiva delle offerte presentate.
4) L’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014,
deve essere interpretato nel senso che:
qualora si accertino, in sede di esame di un ricorso proposto contro una decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico, un obbligo a carico dell’amministrazione aggiudicatrice di dare al ricorrente accesso a informazioni trattate a torto come riservate e una violazione del diritto a un ricorso effettivo derivante dalla mancata divulgazione di dette informazioni, tale accertamento non deve necessariamente comportare l’adozione, da parte di detta amministrazione aggiudicatrice, di una nuova decisione di aggiudicazione dell’appalto, a condizione che il diritto processuale nazionale consenta al giudice adito di adottare, nel corso del procedimento, provvedimenti che ristabiliscano il rispetto del diritto a un ricorso effettivo oppure gli consenta di stabilire che il ricorrente può proporre un nuovo ricorso avverso la decisione di aggiudicazione già adottata. Il termine per la proposizione di un siffatto ricorso deve decorrere solo dal momento in cui detto ricorrente ha accesso a tutte le informazioni qualificate a torto come riservate.>>
Corte di Giustizia UE, Sez. IV, 17 novembre 2022 (causa C-54/21).


Il TAR Milano, richiamando la propria giurisprudenza, precisa che l’abbandono di rifiuti è un illecito che è qualificabile come di condotta e non di evento e dunque non può dare luogo in automatico ad una responsabilità solidale.

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2538 del 15 novembre 2022.


Il Tar Milano esamina un ricorso con il quale si impugna un’ordinanza di inibizione all’utilizzo di impianti di diffusione sonora e svolgimento di manifestazioni ed eventi con diffusione di musica o utilizzo di strumenti musicali in periodo notturno, in quanto a seguito di controlli svolti da A.R.P.A. Lombardia, era stato accertato che nell’esercizio gestito dal ricorrente si era verificato il superamento dei valori limite differenziali di immissione.
Il ricorrente contesta la violazione dell’articolo 7 della legge 241/1990 per mancata partecipazione al procedimento amministrativo, asserendo che avrebbe potuto depositare in sede procedimentale l’esito delle indagini svolte in precedenza, nell’ambito delle quali era stato riscontrato un rapporto tra il livello di rumore ambientale e quello di rumore residuo rientrante nei limiti di legge, diversamente da quanto invece accertato dall’A.R.P.A. Lombardia.
Il Tar accoglie il motivo e osserva:
<<il provvedimento risulta illegittimo per violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, non sanabile ai sensi dell’art. 21 octies l. cit., giacché le modalità di svolgimento della misurazione svolta nel procedimento amministrativo per inquinamento acustico, inciso dall’assenza di un tecnico di fiducia della parte non avvisata, possono averne significativamente inficiato l’esito.
Deve ritenersi quindi fondato il ricorso nella parte in cui si lamenta la violazione delle garanzie procedimentali rappresentando che se alla ricorrente fosse stato consentito di partecipare la stessa avrebbe potuto fornire un apporto collaborativo importante al procedimento in particolare versando in atti i risultati delle indagini svolte in proprio …
Non trova d’accordo il Collegio, quindi, il chiarimento reso dal Comune … secondo cui sarebbe stato controproducente dal punto di vista dell’attendibilità degli esiti delle rilevazioni mettere, potenzialmente, l’interessato in condizione di modificare modi e tempi di svolgimento della sua attività in relazione all’effettuazione delle misurazioni, tenuto conto che uno dei dati in contestazione e da verificare in contraddittorio è proprio quello riferito al c.d. “rumore residuo” che dovrebbe risultare oggettivo in quanto riferito al rumore di base di sottofondo.>>.
TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2514 del 14 novembre 2022.


Secondo il TAR Brescia, l'ordinanza di rimozione dei rifiuti abbandonati ex art. 192, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante la rilevanza dell'eventuale apporto procedimentale che tali soggetti possono fornire, quanto meno in riferimento all'ineludibile accertamento delle effettive responsabilità per l'abusivo deposito di rifiuti. Tale provvedimento, infatti, presupponendo l'accertamento della responsabilità a titolo di dolo o colpa, richiede l'assicurazione di quelle garanzie di partecipazione procedimentale, cui la comunicazione di avvio del procedimento è meramente strumentale, tali da assicurare un accertamento in contraddittorio, legislativamente previsto, oltre che in ordine all'esatta localizzazione dei rifiuti, soprattutto, per l'individuazione dell'organo pubblico effettivamente competente, e, conseguentemente, per quanto attiene all'imputabilità, a titolo di colpa, dello stato di degrado e incuria dei luoghi interessati (in tal senso, tra le tante, Consiglio di Stato, sez. II, 21/06/2013, n. 1033; Consiglio di Stato, sez. V, 25/08/2008, n. 4061; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 28/05/2019, n. 497; T.A.R. Milano, sez. IV, 14/01/2013, n. 93).

TAR Lombardia, Brescia, I, n. 1069 del 3 novembre 2022


Il TAR Milano osserva che per giurisprudenza consolidata, la piena conoscenza - antecedente (alla) o sostitutiva (della) mancata pubblicazione - fa comunque decorrere il termine perentorio di impugnazione sancito dall’art. 29 c.p.a.; in particolare, la piena conoscenza coincide con la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidenti la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso (Cons. Stato, sez. V, n. 1156 del 2009, sez. IV, n. 5870 del 2022).
L'indagine sulla "piena conoscenza" ai fini del decorso del termine decadenziale di impugnazione non deve essere unicamente fondata su elementi formali, sempre che essa sia seria circostanziata e rigorosa, e ben può la prova essere data anche mediante il ricorso a presunzioni semplici (cfr. Cons. Stato sez. IV, n. 6086 del 2022; n. 3825 del 2016; n. 1761 del 2022; 21 marzo 2016, n. 1135; 22.11.2019, n. 7966; 23.5.2018, n. 3075; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 14/12/2021, n.3741, secondo cui la piena conoscenza si realizza anche a prescindere dal rispetto degli adempimenti formali concernenti la comunicazione tutte le volte in cui il destinatario abbia avuto in ogni caso piena contezza dell'esistenza dell'atto e del contenuto lesivo).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2334 del 25 ottobre 2022.


Il TAR Milano ricorda che la giurisprudenza è costante nell’affermare, anche in ipotesi in cui la legge di gara neppure specifichi l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente, che la mancata indicazione separata e distinta dei costi della manodopera (così come degli oneri interni) “è strutturata (proprio in ragione della specifica responsabilizzazione dichiarativa del concorrente e della agevolazione delle corrispondenti verifiche rimesse alla stazione appaltante) come una componente essenziale dell'offerta economica, presidiata da una clausola espulsiva” (Consiglio di Stato sez. V, 08/04/2021, n.2839; Consiglio di Stato sez. V, 22/02/2021, n.1526; Cons. Stato, Ad.Plen., sent. n. 7 e n. 8 del 2 aprile 2020; Corte di Giustizia, sez. IX, 2 maggio 2019 in causa C-309/18).
Inoltre, sempre per pacifica giurisprudenza, la modifica dei costi della manodopera - introdotta nel corso del procedimento di verifica dell'anomalia - comporta un'inammissibile rettifica di un elemento costitutivo ed essenziale dell'offerta economica, che non è suscettibile di essere immutato nell'importo, al pari degli oneri aziendali per la sicurezza, pena l'incisione degli interessi pubblici posti a presidio delle esigenze di tutela delle condizioni di lavoro e di parità di trattamento dei concorrenti, come imposte dall'art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016 (v., ex plurimis, Cons. Stato sez. V, n. 7943, n. 6462, n. 1449 del 2020; v. anche Cons. Stato, Ad. plen., 2 aprile 2020, n. 7).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2393 del 31 ottobre 2022.


Il TAR Brescia respinge un motivo di ricorso con il quale si lamenta l’illegittimità di una previsione di una pista ciclopedonale contenuta in una variante al PGT per contrasto con gli artt. 17 e 19 del PTR che conterrebbero disposizioni ambientali vincolanti per la pianificazione di livello inferiore ai sensi dell’art. 76, comma 2, della LR urbanistica n. 12/2005 (LUR) e osserva:
<<a) Preliminarmente si osserva che l’art. 76, comma 2, della LUR stabilisce che “Le prescrizioni attinenti alla tutela del paesaggio contenute nel PTR sono cogenti per gli strumenti di pianificazione dei Comuni e sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti di pianificazione ...”.
Tale disposizione, poiché comporta una limitazione alla potestà pianificatoria riconosciuta ai Comuni dalla Costituzione (cfr. Corte Cost. n. 179/2019), costituisce una norma di stretta interpretazione.
b) Oltre a ciò si rileva che, nel caso di specie, l’art. 17 del PTR prevede come “obiettivo generale” quello il “recuperare e preservare l'alto grado di naturalità, tutelando le caratteristiche morfologiche e vegetazionali dei luoghi”.
Ebbene la previsione dell’“obiettivo generale” evoca un obiettivo da perseguire e non è quindi assimilabile alla “prescrizione” di cui all’art. 76, comma 2 della LUR invocato dalla ricorrente che, invece, presenta un effetto cogente diretto.
c) L’art. 19, comma 5, stabilisce che nei territori contermini ai laghi “le priorità di tutela e valorizzazione del paesaggio sono specificamente rivolte a garantire la coerenza e organicità degli interventi riguardanti sponde e aree contermini al fine di salvaguardare l'unitarietà e la riconoscibilità del lungolago; la pianificazione locale, tramite i P.T.C. di parchi e province e i P.G.T., e gli interventi di trasformazione devono quindi porre specifica attenzione alle seguenti indicazioni paesaggistiche, che specificano ed integrano quanto indicato al precedente comma 4:
- salvaguardia delle sponde nelle loro connotazioni morfologiche e naturalistiche, strettamente relazionate con i caratteri culturali e storico-insediativi, che contribuiscono a definire identità, riconoscibilità e valori ambientali della consolidata immagine dei paesaggi rivieraschi, con specifica attenzione alla conservazione degli spazi inedificati, al fine di evitare continuità del costruito che alterino la lettura dei distinti episodi insediativi;
- [.....];
- valorizzazione del sistema di fruizione pubblica del paesaggio lacuale, costituito da accessi a lago e da percorsi e punti panoramici a lago, correlata all'estensione delle aree ad esclusivo uso pedonale o a traffico limitato, con previsione di adeguate strutture di sosta a basso impatto visivo, escludendo di massima il lungolago ....”
Anche quest’ultima disposizione:
i) non ha carattere prescrittivo ma fissa semplicemente un “obiettivo”, come del resto ammette anche la ricorrente, con esclusione degli effetti cogenti di cui all’art. 76, comma 2 della LUR;
ii) non impedisce gli interventi modificativi delle sponde del lago, ma stabilisce come obiettivo proprio quello della “valorizzazione del sistema di fruizione pubblica del paesaggio lacuale, costituito da accessi a lago e da percorsi e punti panoramici a lago, correlata all'estensione delle aree ad esclusivo uso pedonale o a traffico limitato, con previsione di adeguate strutture di sosta a basso impatto visivo, escludendo di massima il lungolago ....”.
Quindi, non solo non sono vietate le piste ciclabili, ma esse sono inquadrabili nell’obiettivo della valorizzazione e della fruizione pubblica, anche perché la pista in questione avrà uno sviluppo omogeneo per tutto l’anello delle sponde lacuali, conseguendo l’obiettivo della “organicità degli interventi riguardanti sponde e aree contermini al fine di salvaguardare l'unitarietà”.
Infine l’inciso per cui “di massima” si deve escludere il “lungolago” non osta alla previsione della pista ciclabile, sia perché l’uso dell’avverbio “di massima” non è preclusivo, sia perché esso appare rivolto a limitare interventi diversi di quelli ciclopedonali, ossia l’accesso con autoveicoli per le menzionate aree che è ammesso purché per le sole zone a “traffico limitato” e, quindi, è logico che esso possa venire escluso dal lungolago.
In conclusione la previsione della pista ciclopedonale da parte dell’impugnata variante al P.g.t. non contrasta le citate disposizioni del PTR.>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1119 del 11 novembre 2022.


Il TAR Brescia esamina un motivo di ricorso avverso l’approvazione di una variante al PGT, con cui si lamenta la violazione dell’art. 78 del D.lgs. n. 267/2000 nonché dei principi di buon andamento e imparzialità per un asserito conflitto di interessi di alcuni consiglieri comunali che hanno partecipato alla votazione, e lo ritiene inammissibile in quanto:
<<La ricorrente non ha precisato quale sia il proprio interesse specifico e concreto ad ottenere l’annullamento della delibera impugnata.
Tale interesse - ai sensi dell’art. 78 del TUEL - deve consistere nella dimostrazione che il consigliere comunale che ha votato malgrado il conflitto di interesse, abbia arrecato (o potuto arrecare) un pregiudizio diretto anche alle aree di proprietà della ricorrente.
In assenza di tale dimostrazione non sussiste alcun interesse della ricorrente alla denuncia della violazione dell’art. 78 del TUEL giacché:
a) l’eventuale accoglimento dell’impugnazione avrebbe conseguenze soltanto su aree di proprietà altrui (Cons. Stato, sez. IV, 13 luglio 2010, n. 4542; 12 gennaio 2011, n. 133; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17 maggio 2010, n. 1526);
b) chi si ritenga pregiudicato da una previsione urbanistica estranea al conflitto di interessi degli amministratori locali direttamente incidente sulla sua proprietà, non può avvalersi di tale situazione di illegittimità per ottenere l’annullamento dell’intero strumento urbanistico, non potendo ammettersi un generico interesse strumentale alla riedizione dell’attività di pianificazione del territorio comunale, connesso alla semplice qualità di proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio medesimo, se esso non è direttamente inciso dagli atti censurati (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23 ottobre 2015, n. 5006).
Nel caso di specie la ricorrente non ha fornito alcuna dimostrazione né dell’ipotizzato “interesse diretto” di uno o più consiglieri comunali rispetto ad un’area sulla quale la variante ha inciso, né tantomeno rispetto alla previsione della pista ciclopedonale per la parte che interessa il fondo della ricorrente>>.
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1114 del 7 novembre 2022.


Il TAR Brescia osserva che l’iscrizione alla camera di commercio è espressamente richiesta dall'art. 83, comma 1, lett. a), e comma 3 d.lgs. n. 50 del 2016 solo per poter dar luogo a un primo filtro di ammissibilità delle concorrenti che risultino iscritte per l'esercizio di attività coerenti con quelle oggetto dell'appalto, che quindi si presentino come dotate della professionalità necessaria per rendere le prestazioni richieste (Consiglio di Stato sez. V, 16/12/2019, n.8515; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2019, n. 431); pertanto, la congruenza contenutistica che deve sussistere tra le risultanze descrittive del certificato camerale e l'oggetto del contratto d'appalto non deve tradursi in una perfetta e assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento, ma va appurata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale e, quindi, in virtù di una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto (TAR Lazio-Roma, Sez. II, 21 aprile 2021 n. 4672; T.A.R. Bari, sez. II , 29/03/2021, n. 550).

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 972 del 20 ottobre 2022.


Il TAR Milano osserva che l’attività di esposizione pubblicitaria sui ponteggi è da qualificare quale “servizio” ai sensi dell’art. 4.1 della Direttiva 2006/123/CE (c.d. Direttiva “Bolkenstein”), recepita nell’ordinamento interno tramite il D. Lgs. n. 59 del 2010, trattandosi di una “attività economica non salariata di cui all’art. 57 TFUE fornita normalmente dietro retribuzione”, che è sottoposta a un “regime di autorizzazione”, ossia è correlata a una decisione, formale o implicita, di un’autorità pubblica al fine di poterla esercitare. Difatti, la pubblicità esterna è subordinata al rilascio di specifica autorizzazione, con cui l’Autorità amministrativa verifica la compatibilità dell’attività pubblicitaria proposta con la sicurezza della circolazione stradale e con il decoro urbano (cfr. art. 23 del Codice della strada). La pubblicità sui ponteggi collocati su aree pubbliche sconta la limitatezza di tale risorsa – ossia delle aree pubbliche su cui vengono installati i ponteggi per lavori – e quindi non richiede soltanto il rilascio di un’autorizzazione, ma implica la concessione dello spazio pubblico attraverso il quale effettuare la pubblicità. Quindi deve farsi applicazione della normativa europea (comunque recepita in Italia), secondo la quale, in presenza di “scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili”, ovvero laddove ci si trovi al cospetto di un accesso limitato a un determinato ambito – da intendersi non solo da un punto di vista naturalistico o materiale – da parte dei soggetti in possesso dei requisiti richiesti dalla normativa, è necessario dar corso a un confronto di natura comparativa tra i potenziali aspiranti (art. 12.1 della Direttiva 2006/123/CE). Il concetto di scarsità deve essere «interpretato in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della “quantità” del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio che tramite esso viene immesso sul mercato» (Consiglio di Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 17).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2344 del 26 ottobre 2022.


Il TAR Brescia ritiene illegittima un’ordinanza ex art. 9 della legge n. 447 del 1995, con la quale, accertata la violazione dell’articolo 4 del d.P.C.M. 14 novembre 1997, è stato vietato alla società ricorrente che gestisce un locale di pubblico spettacolo (discoteca) di effettuare intrattenimento musicale e riproduzione di musica nelle aree esterne del locale, senza fissare un termine di durata dell’efficacia del provvedimento. 
Osserva il TAR che:
<<per costante giurisprudenza amministrativa, infatti, tra i presupposti per l'emissione dell'ordinanza de qua, fissati in maniera precisa dall'art. 9 della legge n. 447 del 1995, rientra anche la temporaneità della misura (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 13 maggio 2016, n. 2457). Poiché, quindi, il sindaco ha espressamente ritenuto «di non fissare un termine finale di durata dell’efficacia della presente (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2011, n. 3922 e 13 agosto 2007, n. 4448) stante la concreta situazione di pericolo accertata, rapportata alla situazione di fatto» e siccome anche la stessa giurisprudenza richiamata prevede espressamente che, anche se le ordinanze contingibili e urgenti non devono necessariamente avere un termine finale espresso, esse non possono comunque acquisire il carattere della stabilità (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2011, n. 3922), la censura è fondata e deve essere accolta>>.
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1054 del 31 ottobre 2022.


Il TAR Milano esamina la questione giuridica riguardante l’applicazione dell’art. 15 del DPR 380 del 2001 alle DIA e ora alle SCIA.
Il TAR, dopo aver ricordato che l’art. 15 citato e in particolare il comma 2 concerne la proroga dei termini di inizio e di conclusione dei lavori oggetto del permesso di costruire rilasciato dal Comune all’avente diritto ai sensi degli articoli 10 e seguenti del TU, osserva:
<<Il dato testuale e l’interpretazione dominante della giurisprudenza amministrativa escludono che l’art. 15, espressamente dettato per il permesso di costruire, possa trovare applicazione anche con riguardo ai termini di conclusione dei lavori oggetto di SCIA.
Osta a tale applicazione, innanzi tutto, il chiaro dato normativo: l’art. 23 comma 2 stabilisce che in caso di mancata ultimazione dei lavori il completamento dell’intervento è subordinato ad una nuova SCIA da presentarsi da parte del privato («La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è subordinata a nuova segnalazione.»).
Analoga norma è contenuta nell’art. 42 comma 6 della legge regionale (LR) della Lombardia sul governo del territorio n. 12/2005, secondo cui: «I lavori oggetto della segnalazione certificata di inizio attività devono essere iniziati entro un anno dalla data di efficacia della segnalazione stessa ed ultimati entro tre anni dall’inizio dei lavori. La realizzazione della parte di intervento non ultimata nel predetto termine è subordinata a nuova segnalazione».
Anche la giurisprudenza della scrivente Sezione, confermata dal Consiglio di Stato, ha concluso per l’inapplicabilità dell’art. 15 alle SCIA (ovvero alle DIA).
Sul punto sia consentito il rinvio, quali precedenti conformi ex art. 74 del c.p.a., alla sentenza di questa Sezione II n. 1764/2015, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza della Sezione IV n. 572/2017 ed all’ulteriore pronuncia di questa Sezione II n. 619/2013, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza della Sezione IV n. 5969/2013.>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2389 del 31 ottobre 2022.


Il TAR Milano ricorda che, in presenza di una partecipazione pulviscolare di diverse amministrazioni al capitale dell’organismo affidatario, il riconoscimento di una situazione di controllo analogo congiunto sostanziale ed effettivo non può prescindere dalla presenza, in via diretta o per rappresentazione, di tutte le P.A. affidanti negli organi decisionali del soggetto affidatario. In tal senso: «A proposito nell'in house pluripartecipato, le amministrazioni pubbliche in possesso di partecipazioni di minoranza possono esercitare il controllo analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali dell'organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipanti; […]. […] partecipazione del socio minoritario agli organi direttivi, requisito questo che la giurisprudenza comunitaria richiede perché in caso di "in house frazionato" sussista il controllo analogo; in caso contrario, infatti, i soci di maggioranza sono in grado di imporre le proprie scelte al socio di minoranza, già a partire dalla nomina dell'organo amministrativo (Corte Giustizia UE, III sez., 29.11.2012, n. 182). […] Le decisioni strategiche e più importanti dovrebbero essere sottoposte all'approvazione della totalità degli enti pubblici soci; in caso contrario, neppure i soci pubblici di maggioranza hanno effettivo potere di orientare le scelte determinanti della società (v. Cons. St., sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514; id., sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092; 11 agosto 2010, n. 5620;8 marzo 2011, n. 1447)» (Consiglio di Stato, III, 27 aprile 2015 n. 2154; cfr: V, 30 aprile 2018, n. 2599).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2437 del 3 novembre 2022.


Il TAR Brescia osserva che sia la disciplina euro-unitaria sia quella nazionale, sul presupposto della generale libertà di circolazione da garantire agli articoli pirotecnici, hanno preventivamente perimetrato i limiti del loro utilizzo in modo da contemperare l’interesse degli operatori economici del settore con quelli pubblici quali la salute, la sicurezza, l’ambiente, e così via.
L’assetto in tal modo delineato non può, quindi, essere modificato a livello locale, pena l’introduzione di regimi territoriali differenziati che non solo ledono i principi di uniformità imposti dai precetti costituzionali di cui agli artt. 97 e 117 Cost. (cfr. Corte costituzionale, sentenza 7 aprile 2011, n. 115) ma si pongono, altresì, in contrasto con la libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. e dal diritto dell’Unione europea.
Ciò posto, il Collegio osserva che il “regolamento comunale per il benessere degli animali” prevede che «è vietato su tutto il territorio del Comune di …, fare esplodere petardi, botti, fuochi d'artificio e articoli pirotecnici in genere. L'attivazione di petardi, botti, fuochi d'artificio e simili può configurarsi come maltrattamento e comportamento lesivo nei confronti degli animali come previsto dallo stesso articolo 9 comma 1, e comporta quindi responsabilità dei trasgressori», il che lo rende non solo in contrasto con le disposizioni nazionali ed euro-unitarie in materia ma anche sproporzionato ed eccedente, per la sua indiscriminata ampiezza, rispetto allo scopo prefissato (il benessere animale) oltre che lesivo della libertà di iniziativa economica del ricorrente.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1051 del 31 ottobre 2022.