Il TAR Brescia con riferimento a una procedura di evidenza pubblica per l’attivazione di un partenariato con enti del Terzo Settore e alle modalità di esame delle offerte osserva:
<<12.1. Premesso che la procedura di gara qui in esame si è svolta in modalità cartacea e non telematica, va osservato che in relazione a tale modalità di svolgimento della procedura di gara trovano applicazione i principi affermati da ormai consolidata giurisprudenza, a far data dalla nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 31 del 31 luglio 2012, secondo cui "I principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all'aggiudicazione debba procedersi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, l'apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica”; in senso analogo, tra le tante, T.A.R. Lazio-Roma, sez. I, 20/01/2020, n. 713; Consiglio di Stato, sez. III, 24/09/2018, n. 5495; T.A.R. Genova, sez. II, 21/03/2018, n. 235; T.A.R. Brescia, sez. II, 12/03/2014, n. 241; T.A.R. Brescia, sez. II, 19/06/2012, n. 1078).
12.2. In sintonia con i principi enunciati dall’Adunanza Plenaria, la giurisprudenza successiva ha avuto modo di affermare, anche di recente, che “devono svolgersi in seduta pubblica gli adempimenti concernenti la verifica dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta, sia che si tratti di documentazione amministrativa che di documentazione riguardante l'offerta tecnica ovvero l'offerta economica; pertanto, è illegittima l'apertura in segreto di plichi, con la conseguenza che il mancato rispetto di detto principio di pubblicità delle sedute della commissione, con riguardo alla fase dell'apertura dei plichi contenenti le offerte e delle buste contenenti le offerte economiche dei partecipanti, integra un vizio del procedimento che comporta l'invalidità derivata di tutti gli atti di gara giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali dev'essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi in mancanza di un riscontro immediato, senza che rilevi l'assenza di prova dell'effettiva lesione sofferta dai concorrenti” (T.A.R. Pescara, sez. I, 25/06/2019, n. 173; in senso analogo, T.A.R. Lazio-Roma, sez. II, 23/02/2018, n. 2108).>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1380 del 27 dicembre 2022.


Il TAR Milano osserva:
<<A questo proposito, va innanzitutto rilevato che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha motivo per discostarsi, le norme invocate dal ricorrente, che come noto hanno introdotto nel nostro ordinamento l’obbligo di assicurare la partecipazione al procedimento amministrativo da parte dei soggetti interessati, vanno interpretate applicando il principio di strumentalità delle forme, con la conseguenza che il mancato rispetto delle formalità procedimentali ivi previste non costituisce causa di illegittimità del provvedimento finale qualora lo scopo che le norme stesse intendono perseguire sia stato comunque nel concreto raggiunto. In applicazione di questo principio, si deve escludere la portata invalidante dell’omesso avviso di avvio del procedimento quando l’amministrato abbia avuto non solo piena contezza dell’azione amministrativa incisiva del suo interesse, ma anche la concreta possibilità di partecipare al procedimento e di far valere in quella sede le sue ragioni (cfr. fra le tante Consiglio di Stato Sez. VI, 11 gennaio 2021, n. 342).
La giurisprudenza ha altresì chiarito che l’obbligo dell’Amministrazione di dare riscontro alle osservazioni procedimentali non va inteso quale obbligo di confutazione puntuale di tutti i singoli rilievi sollevati dall’interessato, essendo sufficiente, affinché la garanzia partecipativa possa dirsi rispettata, che nella motivazione dell’atto si dimostri di aver tenuto in considerazione tali rilievi e si esponga sinteticamente il ragionamento complessivo che ne ha permesso il superamento (cfr. Consiglio di Stato Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 6173; T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 7 marzo 2022, n. 183; T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, 4 gennaio 2022, n. 10).>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2755 del 14 dicembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, costituiscono nuova costruzione gli interventi di trasformazione urbanistica comportanti la realizzazione di depositi di merci o di materiali e implicanti la trasformazione permanente del suolo inedificato (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 6 febbraio 2018, n. 753; Consiglio di Stato, sez. VI, 17 marzo 2022, n. 1957). Anche la giurisprudenza penale, distinguendo tra interventi finalizzati ad attività agricole, interventi finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli che incidono sul tessuto urbanistico del territorio ed interventi prodromici alla realizzazione di un immobile, richiede, per le ultime due tipologie, la necessaria acquisizione di un permesso di costruire (cfr., Corte di Cassazione, sezione III penale, 12 gennaio 2017, n. 1308 e giurisprudenza ivi richiamata; Corte di Cassazione, sez. III penale, 10 marzo 2022 , n. 12936; Corte di Cassazione, sez. III penale, 23 febbraio 2021, n. 12121). Ne consegue che lo sbancamento e il livellamento del terreno, pur non comportando un'edificazione in senso stretto, determinano una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio, stante la destinazione agricola dell’area, sicché doveva essere acquisito il permesso di costruire.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2775 del 19 dicembre 2022.


Il TAR Milano richiama e fa propria la giurisprudenza secondo la quale l'azione di accertamento, nel giudizio amministrativo, è esperibile “ove necessaria a colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo adeguato dalle azioni tipizzate […] per garantire la piena e completa protezione dell’interesse legittimo; […] la garanzia costituzionale impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando un provvedimento da impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente” (Cons. St., Ad. Plen., n. 15 del 2011). In altre parole, la domanda di mero accertamento è proponibile solo laddove le azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela e dunque a protezione di un interesse giuridicamente rilevante di chi agisce in giudizio diverso da quello consistente nell'eliminazione degli effetti del provvedimento, occorrendo altrimenti esperire l'azione di annullamento nel rispetto del termine decadenziale (cfr., ex plurimis, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 16 marzo 2021, n. 750; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 5 febbraio 2021, n 355; T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 7 ottobre 2020, n. 688; T.A.R. Liguria, Sez. II, 10 giugno 2020, n. 361).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2783 del 19 dicembre 2022.


Il TAR Brescia osserva che:
<<2. Al riguardo va rammentato che, secondo consolidati principi giurisprudenziali, “il risarcimento del danno conseguente a lesione di interesse legittimo pretensivo è subordinato, pur in presenza di tutti i requisiti dell'illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso), alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l'aspirazione al provvedimento fosse destinata ad esito favorevole, quindi alla dimostrazione, ancorché fondata su presunzioni, della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse; infatti, il sistema di tutela degli interessi pretensivi consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l'interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l'atto, in congiunzione con l'interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l'interessato sia suscettibile di appagare un bene della vita” (Consiglio di Stato, sez. V, 27/12/2013, n. 6260).
Se non nella prova certa della spettanza del bene della vita, il risarcimento dell’interesse pretensivo è subordinato quanto meno alla prova del possesso di una chance di conseguirlo, intesa, peraltro, non come “semplice possibilità di conseguire il risultato sperato”, ma come “sussistenza di una rilevante probabilità del risultato utile, che sia stata vanificata dall'agire illegittimo dell'amministrazione” (Consiglio di Stato, sez. IV, 23/09/2019, n. 6319).
E’ stato affermato, al riguardo, che “la risarcibilità della "chance" di aggiudicazione è ammissibile solo allorché il danno sia collegato alla dimostrazione di una seria probabilità di conseguire il vantaggio sperato, dovendosi, per converso, escludere la risarcibilità allorché la "chance" di ottenere l'utilità perduta resti nel novero della mera possibilità (ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 23 giugno 15 n. 3147); pertanto, “per ottenere il risarcimento del danno anche per perdita di una “chance” è, comunque, necessario che il danneggiato dimostri, seppur presuntivamente ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio alternativo perduto e provi, conseguentemente, la sussistenza, in concreto, dei presupposti e delle condizioni del raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve configurarsi come conseguenza immediata e diretta” (Consiglio di Stato, sez. V, 11/04/2022, n. 2709 ); ciò, peraltro, deve essere necessariamente esaminato alla luce della peculiarità delle situazioni giuridiche soggettive di vantaggio, proprie del diritto amministrativo, la cui probabilità di transitare dalla fase in potentia a quella in actu , requisito indispensabile per la configurabilità di una chance risarcibile, va verificata alla stregua della consistenza dei poteri attribuiti dall'ordinamento alla Pubblica amministrazione e “tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l'atto illegittimo e di come si sarebbe evoluta nel proseguo” (Consiglio di Stato, sez. V, 27/03/2013, n. 1772).>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1314 del 14 dicembre 2022.


Il Tar Milano, a fronte di una clausola convenzionale stipulatala da un soggetto aggregatore che esclude la revisione dei prezzi contrattuali osserva che la clausola convenzione, nella parte in cui esclude ogni revisione del corrispettivo, è nullo per contrarietà alla disciplina di legge imperativa (art. 106 comma 1 lettera a) del codice dei contratti pubblici) che fa salvi, per i contratti stipulati dai soggetti aggregatori (quale è Aria Spa) l’applicazione dell’art. 1 comma 511 della legge n. 208/2015.
Tale ultima norma ammette una revisione del corrispettivo qualora si sia verificata una variazione del valore dei beni, che abbia cagionato una variazione del prezzo non inferiore al dieci per cento e tale da alterare significativamente l’originario equilibrio contrattuale, come accertato dall’autorità indipendente preposta alla regolazione dello specifico settore oggetto del contratto oppure, in mancanza, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm). Il citato comma 511 prevede quindi un particolare procedimento di revisione, che impone l’intervento di una autorità indipendente o dell’Agcm, anche per l’accertamento dell’aumento dei prezzi dei beni superiori alla soglia del 10%.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2808 del 21 dicembre 2022.


Con la sentenza n. 251 del 2022, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 6, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 16 dicembre 2021, n. 23, che, in assenza di un piano paesaggistico elaborato congiuntamente dallo Stato e dalla Regione, consentiva l’ampliamento della superficie dei fabbricati da destinare ad attività agrituristica.
Secondo la Corte, il rischio di pregiudicare scelte di tutela del paesaggio che devono essere necessariamente condivise comporta la violazione della competenza statale stabilita art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Corte Costituzionale n. 251 del 19 dicembre 2022.


Il TAR Milano ricorda come la giurisprudenza sia consolidata nel riconoscere alle obbligazioni assunte in una convenzione urbanistica la natura di obbligazioni propter rem (ex multis, Consiglio di Stato, IV, 13 novembre 2020, n. 7024; 9 novembre 2020, n. 6894; II, 23 settembre 2019, n. 6282; IV, 14 maggio 2019, n. 3127; 9 gennaio 2019, n. 199) e precisa:
<<Difatti, «in ordine alla questione principale dell’individuazione dei soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste da una convenzione di lottizzazione, [si è osservato] che:
a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso di inadempimento è necessario, in via preliminare, definire la natura giuridica delle obbligazioni derivanti dalla convenzione stipulata con l’ente locale;
b) al riguardo, le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’autorità preposta alla gestione del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 6 novembre 2009, n. 6947);
c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di cassazione ha sempre affermato che l’obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem (cfr. Cass. civ., Sez. I, 20 dicembre 1994, n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II, 26 novembre 1988, n. 6382);
d) la natura reale dell’obbligazione comporta dunque che all’adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l’edificazione ed i loro aventi causa (cfr. Cass. civ., 15 maggio 2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27 agosto 2002, n. 12571);
e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l’assunzione, all’atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell’impegno - per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa - di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell’ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res (T.a.r. Trento, sez. I, 6 novembre 2014, n. 394; in senso conforme, T.a.r. Campania, Napoli , sez. II, 9 gennaio 2017, n. 187; T.a.r. Campania, Napoli, Sez. VIII, 16 aprile 2014, n. 2170; T.a.r. Lombardia, Brescia, 1 giugno 2007, n. 467; T.a.r. Sicilia, Catania, sez. I, 29 ottobre 2004, n. 3011), per cui l’avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti (T.a.r. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 12 settembre 2013, n. 747), risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione;
f) invero, il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell’obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione degli impegni presi (T.a.r., Brescia, sez. I, 23 giugno 2017, n. 843)» (Consiglio di Stato, IV, 9 gennaio 2019, n. 199; anche, T.A.R. Lombardia, Milano, II, 27 aprile 2021, n. 1056).>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2735 del 12 dicembre 2022.


Il TAR Brescia precisa che le azioni di accertamento atipiche, in difetto di una previsione normativa, non sono soggette a termini decadenziali. Ma tale regola vale solo se tali azioni sono effettivamente dirette a perseguire un interesse di autentico accertamento di un fatto controverso, mentre quando esse siano sorrette da un interesse consistente nell’eliminazione degli effetti di provvedimenti amministrativi autoritativi, allora sarà necessario esperire l'azione di annullamento nei termini decadenziali di impugnazione, restando preclusa la proposizione dell’azione di accertamento che costituirebbe un’elusione del termine decadenziale (ormai scaduto) d’impugnazione di provvedimenti autoritativi (cfr.: TAR Veneto, sez. III, 1.4.2021, n. 426; TAR Toscana, sez. III, 8.5.2015, n. 760; TAR Lombardia Milano, sez. II, 5.2.2021, n. 355).
E infatti l’art. 34, comma 2, del C.p.a. stabilisce che "il giudice non può conoscere della illegittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento”.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1335 del 16 dicembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, nei procedimenti amministrativi, anche di carattere valutativo, un termine è perentorio soltanto qualora vi sia una previsione normativa che espressamente gli attribuisca questa natura, ovvero quando ciò possa desumersi dagli effetti, sempre normativamente previsti, che il suo superamento produce, quali, ad esempio, una preclusione o una decadenza. Ove manchi un’espressa indicazione circa la natura del termine o gli specifici effetti dell’inerzia, deve aversi riguardo alla funzione che lo stesso in concreto assolve nel procedimento, nonché alla peculiarità dell’interesse pubblico coinvolto, con la conseguenza che, in mancanza di elementi certi per qualificare un termine come perentorio, per evidenti ragioni di favor esso deve ritenersi ordinatorio, e il suo superamento non determina l'illegittimità dell'atto ma una semplice irregolarità non viziante (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, 22-01-2020, n. 537; TAR Piemonte, Torino, II, 24-03-2022, n. 269).

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2747 del 13 dicembre 2022.



Il TAR Milano rigetta la tesi di parte ricorrente secondo la quale sarebbe ammissibile la “Scia in sanatoria” sulla base del seguente percorso motivazionale:
<<Ciò per la considerazione che il nostro ordinamento non ammette, a regime, una sanatoria diversa da quella contemplata dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, che prevede anzitutto che la richiesta di permesso sia specificamente indirizzata alla sanatoria di opere già eseguite e che, dal punto di vista procedimentale, pone la regola secondo cui la richiesta in sanatoria si intende rifiutata se il Comune non provvede espressamente entro 60 giorni.
Il ricorrente, nella ricostruzione proposta, pretende invece di aver sanato delle opere abusive per il tramite di una Scia (quella del 2020), senza che la stessa soddisfacesse i requisiti di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 – che devono intendersi come tassativi poiché la sanatoria è istituto di carattere eccezionale – e, anzi, ricollegando al silenzio un significato, positivo, opposto rispetto a quello, invece di diniego, che la norma riconnette in caso di presentazione di richiesta di sanatoria (cfr., in termini, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 29 settembre 2022, n. 2126).
In altre parole, il ricorrente non può derogare all’eccezionale regime previsto dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 per l’accertamento di conformità di opere abusive per il sol fatto di scegliere un regime – quello della Scia – non deputato a ciò. Diversamente opinando, si arriverebbe alla conclusione – assolutamente estranea al sistema – che sussista per il privato la facoltà di introdurre inammissibilmente una forma atipica di sanatoria (che si realizza appunto per silenzio assenso) e a fronte della quale l’amministrazione non avrebbe nemmeno il potere di provvedere, espressamente o per silenzio, secondo l’unica regola stabilita dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ma per la quale essa dovrebbe invece attivare i poteri inibitori dettati dall’art. 19 l. n. 241/1990 per il regime autorizzatorio di un altro tipo di opere.>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2744 del 13 dicembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che, per costante giurisprudenza, "dopo l'intervento dell'Adunanza Plenaria n. 27/2014, non può dubitarsi che negli appalti di servizi e forniture non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara", sicché rientra nella discrezionalità della stazione appaltante stabilire le quote che devono essere possedute dalle imprese partecipanti ai raggruppamenti (Consiglio di Stato, Sezione V, n. 1101/2020, n. 8249/2019 e Sezione III, n. 4025/2019, n. 3331/2019 e n. 4336/2017).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2715 del 9 dicembre 2022.


Secondo il TAR Brescia, il Provvedimento Unico Ambientale (PUA) ha la finalità di riunire, in un unico atto, il provvedimento di VIA e ogni altra autorizzazione, intesa, parere, concerto, nulla osta o atto di assenso in materia ambientale richiesto dalla normativa vigente per la realizzazione e l’esercizio di un progetto e quindi è riduttivo sostenere che il PUA sia un mero “contenitore” dei provvedimenti delle amministrazioni coinvolte anziché un provvedimento autonomo che sintetizza, e assorbe, le loro manifestazioni di volontà.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1284 del 7 dicembre 2022.


Il TAR Milano, in adesione a un consolidato orientamento giurisprudenziale, anche della Sezione, osserva che al fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere in modo adeguato l’impatto effettivo degli interventi compiuti; i molteplici interventi eseguiti non vanno considerati cioè in maniera “frazionata”; essi, al contrario, debbono essere vagliati in un quadro di insieme e non segmentato (cfr., Consiglio di Stato, sez. VI, 6 febbraio 2019, n. 902; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 25 marzo 2019, n. 646; id., 2 ottobre 2020, n. 1767).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2650 del 29 novembre 2022.



Il TAR Brescia esamina una istanza di ricusazione dell’intero collegio che aveva pronunciato sentenza non definitiva dichiarando inammissibile un ricorso nella parte concernente una domanda sul silenzio e disponendo la conversione del rito quanto alle altre domande e osserva:
<<Premesso che:
- con ricorso rubricato al n. r.g. 722/2020 la sig.ra -OMISSIS- ha chiesto l’annullamento del silenzio formatosi sull’atto di significazione datato -OMISSIS- e notificato al Comune di -OMISSIS- e ad ATS Brescia in data -OMISSIS-, avente ad oggetto la revoca delle ordinanze contingibili e urgenti del -OMISSIS-, recanti il divieto di utilizzo a scopo potabile dell’acqua emunta dal pozzo presente nelle pertinenze dell’azienda agricola -OMISSIS-, sita in -OMISSIS- – -OMISSIS-, nonché la richiesta di approntamento della fornitura di acqua potabile mediante allaccio al pubblico acquedotto e/o sistemi di approvvigionamento alternativi;
- con lo stesso mezzo di gravame l’interessata instava per la declaratoria di nullità delle note in data -OMISSIS- e -OMISSIS- del Commissario Prefettizio del Comune di -OMISSIS-, della nota del -OMISSIS-, a firma del Responsabile Servizi al Territorio del Comune di -OMISSIS- e chiedeva la condanna del Comune di -OMISSIS- e di ATS Brescia ad adottare i provvedimenti di competenza, con la nomina, in caso di inottemperanza, di un commissario ad acta che provveda in luogo degli stessi;
- infine veniva domandata la condanna del Comune e dell’Agenzia di Tutela della Salute (ATS) di Brescia al risarcimento dei danni, nonché al pagamento dell’indennizzo per ingiustificato ritardo di cui all’art. 2-bis, comma 1-bis della Legge 7 agosto 1990, n. 241;
considerato che:
- con sentenza non definitiva n. -OMISSIS- 2021 la 1^ Sezione di questo T.A.R. dichiarava inammissibile il ricorso nella parte concernente la domanda sul silenzio e disponeva la conversione del rito quanto alle altre domande;
- con istanza depositata il 7 ottobre 2022 la ricorrente, ex art. 18 c.p.a., propone la ricusazione dell’intero Collegio che ha pronunciato la prefata sentenza allegando a sostegno il dettato dell’art. 51, 1° co., n. 4, c.p.c. ovvero l’obbligo del giudice di astenersi “se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico”;
- nel caso di specie la ricorrente, con la propria istanza di ricusazione, assume che con la declaratoria di inammissibilità dell’azione avverso il silenzio contestualmente alla conversione del rito per le altre domande, il Collegio avrebbe “ipotecato la prosecuzione del giudizio, anticipandone l’esito: o il rigetto delle domande medesime o, addirittura, la loro inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse, così determinando addirittura, per il prosieguo, l’obbligo di astensione per i giudici che hanno pronunciato la sentenza non definitiva, ai sensi degli artt. 17 C.P.A. e 51, n. 4, C.P.C.”;
rilevato che:
- affinché possa configurarsi il venir meno dell'imparzialità del giudice, attraverso una sua manifestazione di "una precognizione negativa nei confronti del ricorrente", come sostenuto dal ricorrente, "occorre individuare un effetto condizionante della decisione da lui assunta in precedenza, capace di distorcere ovvero di influenzare il giudizio successivo" (Cassazione penale, sez. III, 21.5.2021, n. 32630);
- nella fattispecie, tuttavia, non sono ravvisabili i presupposti normativi di cui all'art. 51, n. 1 c.p.c., non avendo i magistrati ricusati conosciuto della vicenda in esame in altro grado del giudizio;
- invero, le ipotesi di ricusazione del giudice, in quanto espressione di situazioni eccezionali, sono assolutamente tassative e non consentono alcun ampliamento mediante interpretazione;
- la conversione del rito, decisione peraltro vincolata dalla natura delle domande proposte dalla stessa ricorrente, non costituisce un’articolazione per gradi dello stesso procedimento, ma solo la fisiologica prosecuzione dello stesso giudizio, tant’è che ciò non determina neppure il mutamento del numero di registro generale del fascicolo;
- del resto, in più occasioni, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che nelle ipotesi di “giudizio bifasico” quale ad esempio l’opposizione ai sensi dell'art. 1, comma 51 della L. 28 giugno 2012 n. 92, la nuova fase del processo si pone in rapporto di prosecuzione, nel medesimo grado di giudizio della res controversa (Corte Cost., 13/05/2015, n.78);
- alle stesse conclusioni si è pervenuti in tema di giudizio per revocazione davanti alla Corte dei conti non ritenendo sussistente l’obbligo di astensione obbligatoria (e quindi i presupposti per la ricusazione) in capo al giudice che faccia parte del collegio giudicante in revocatoria, il quale abbia anche fatto parte del collegio che ha emesso la sentenza impugnata per revocazione (Corte Conti, sez. reg. giurisd. Sicilia, 25/03/2014, n. 28);
- nel processo amministrativo si è ritenuto che, ai sensi degli artt. 106 e 107 c.p.a., i magistrati, ai quali si deve la paternità dell'impugnata revocanda sentenza, sono legittimati a far parte del collegio investito della cognizione del relativo ricorso per revocazione atteso che il dovere di astensione, previsto dall'art. 51 n. 4, c.p.c., sussiste solo quando nel medesimo ricorso sia lamentato il dolo del giudice o quando il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa (Cons. Stato Ad. plen., 24/01/2014, n. 4);
- anche per quanto attiene alla partecipazione dello stesso giudice alla fase cautelare del giudizio e di seguito alla fase di merito, data la diversità dei caratteri della cognizione, non sussiste alcuna incompatibilità nella partecipazione dello stesso giudice alla pronuncia in sede cautelare e alla pronuncia in sede di merito (o (Cons. Stato, Ad. pl., 25 marzo 2009, n. 2, T.A.R. Liguria, sez. I, 18/07/2017, n. 616; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, ord. 11 aprile 2017, n. 2010);
ritenuto che:
- le argomentazioni sopra rassegnate trovano più forte conferma dalla circostanza che l'autonoma fase processuale, culminata nella sentenza non definitiva n. -OMISSIS- 2021, pur essendo ovviamente connessi i presupposti di fatto della vicenda, non ha implicato la cognizione e la risoluzione delle identiche questioni;
- pertanto l’istanza di ricusazione deve essere respinta, nulla disponendo in ordine alle le spese relative all'esame della domanda di ricusazione in assenza dello svolgimento di attività difensive delle controparti;>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1239 del 5 dicembre 2022.


Il TAR Brescia osserva:
<<21. La norma di riferimento è l’art. 167 comma 4-a del Dlgs. 42/2004, in base al quale la compatibilità paesistica non può essere riconosciuta per le opere abusive che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi. Nel contesto della sanatoria paesistica il concetto di volume utile equivale a volume paesisticamente incompatibile. L’incompatibilità viene misurata in relazione al bene giuridico tutelato, che consiste negli aspetti del paesaggio ritenuti di particolare pregio.
22. Tutto questo differenzia la valutazione paesistica dalla valutazione urbanistica, perché sposta l’attenzione sull’impatto paesistico della costruzione. Ai fini della sanatoria paesistica, dunque, non sono rilevanti i nuovi volumi che risultino invisibili o non distintamente percepibili sullo sfondo tutelato, anche qualora rappresentino volumi a tutti gli effetti secondo la disciplina urbanistica. Per il principio di proporzionalità, la sanzione ripristinatoria che presidia il vincolo paesistico non può imporre ai privati un sacrificio inutile, in quanto non necessario per reintegrare il paesaggio descritto nel decreto di vincolo.
23. Più precisamente, le edificazioni inidonee a interferire con il paesaggio, come quelle interrate, o come quelle seminterrate non percepibili in uno sguardo d’insieme, rimangono assoggettate all’autorizzazione paesistica, essendo comunque necessaria una valutazione da parte dell’autorità competente, ma, ove realizzate abusivamente, non possono essere escluse dalla sanatoria per il solo fatto di costituire volumi o superfici urbanisticamente rilevanti. Una volta accertata la compatibilità paesistica, la sanatoria è quindi ammissibile, previo versamento della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 167 comma 5 del Dlgs. 42/2004.
24. Nel caso in esame, la sanatoria paesistica è comunque possibile in quanto si tratta di abusi molto risalenti, grazie all’applicazione del regime più favorevole in vigore prima delle modifiche introdotte dall'art. 27 comma 1 del Dlgs. 157/2006. La disciplina della sanatoria rimane infatti ancorata al momento storico della realizzazione delle opere abusive, che in base al rapporto di violazione edilizia si possono far risalire al periodo 1999-2000. Fino al 2006 le due opzioni disponibili (rimessione in pristino e regolarizzazione con pagamento della sanzione pecuniaria) si collocavano su un piano di parità, essendo rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione.
25. L’ancoraggio alla disciplina anteriore discende dalla considerazione che le norme sulla sanabilità degli abusi paesistici hanno natura sostanziale, in quanto attengono al patrimonio giuridico incorporato nel fondo al momento della trasformazione non assentita. Per il principio di certezza del diritto, devono quindi rimanere applicabili anche nel successivo e più severo regime sanzionatorio (v. TAR Brescia Sez. II 8 luglio 2013 n. 650).
26. Al medesimo risultato si perviene confrontando il divieto di autorizzazione paesistica postuma introdotto dal Dlgs. 157/2006 con gli Engel criteria, come suggerito dalla citata nota ministeriale del 16 dicembre 2015. Il suddetto divieto espande l’utilizzo della rimessione in pristino, che diventa lo strumento repressivo di applicazione generale, ponendo così il problema della sua assimilazione a una sanzione penale. La natura sostanzialmente penale della rimessione in pristino non è evidentemente desumibile dal primo degli Engel criteria (qualificazione formale della fattispecie), ma può emergere dal secondo (natura del bene giuridico offeso) e dal terzo (grado di severità della sanzione). La realizzazione di opere senza autorizzazione paesistica integra infatti lo specifico reato di cui all’art. 181 del Dlgs. 42/2004, per il quale è previsto (v. comma 2) che assieme alla condanna sia ordinata anche la rimessione in pristino. All’identità del bene giuridico (tutela effettiva del vincolo paesistico), accoppiata all’identità delle conseguenze (demolizione dell’abuso), deve dunque corrispondere il caposaldo penale dell’irretroattività della norma più afflittiva.
27. La disciplina transitoria contenuta nell’art. 182 comma 3-bis del Dlgs. 42/2004 riguarda le domande di sanatoria presentate entro il 30 aprile 2004 e non ancora definite. Non vi è quindi alcun conflitto con quanto sopra esposto circa il collegamento tra la data dell’abuso e la disciplina in vigore in quel momento. In realtà, la norma transitoria si rivolge alle autorità competenti a valutare le domande di sanatoria già presentate, introducendo un impulso d’ufficio, ma non fissa preclusioni per i proprietari che maturino successivamente l’interesse a sanare opere oggetto di contestazione>>.
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1220 del 2 dicembre 2022.


Il TAR Milano respinge la tesi patrocinata dalla difesa delle parti ricorrenti secondo la quale il contributo di costruzione da prendere a riferimento per i permessi di costruire in sanatoria – e successivamente da raddoppiare – è quello la cui determinazione, nel silenzio della normativa di settore, si ottiene applicando tutti i benefici e le esenzioni che verrebbero tenuti in considerazione nel caso di rilascio di un permesso di costruire ordinario e non in sanatoria.
Secondo il TAR:
<<Tale prospettazione non appare condivisibile, atteso che il contributo di costruzione è un corrispettivo di diritto pubblico – quale diretta applicazione del fondamentale principio dell’onerosità del titolo edilizio recepito dall’art. 16 del D.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 64 del 10 aprile 2020) – e come tale, benché esso non sia legato da un rigido vincolo di sinallagmaticità rispetto del rilascio del permesso di costruire, rientra anche, e coerentemente, nel novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost. (Consiglio di Stato, Ad. plen., 30 agosto 2018, n. 12; IV, 7 novembre 2017, n. 5133). Difatti, «il permesso di costruire è provvedimento naturalmente oneroso (da ultimo, Corte Cost., 3 novembre 2016 n. 231), di modo che le norme di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni” ad una regola generale (e da considerarsi, quindi, di stretta interpretazione), non essendo consentito alla stessa potestà legislativa concorrente di ampliare le ipotesi al di là delle indicazioni della legislazione statale, da ritenersi quali principi fondamentali in tema di governo del territorio» (Consiglio di Stato, IV, 30 maggio 2017, n. 2567).
La giurisprudenza ha affermato che, «attesa la natura non sinallagmatica e il regime interamente pubblicistico che connota il contributo de quo, la sua disciplina vincola anche il giudice, al quale è impedito di configurare autonomamente ipotesi di non debenza della specifica prestazione patrimoniale diverse da quelle autoritativamente individuate dal legislatore» (T.A.R. Veneto, II, 26 novembre 2019, n. 1281; T.A.R. Marche, I, 30 dicembre 2017, n. 954).
Ciò risponde pienamente al principio di cui all’art. 23 della Costituzione, secondo il quale «nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge», cui consegue una rigidità delle previsioni legislative assolutamente non derogabile in sede interpretativa (sull’applicabilità del principio alla materia del contributo di costruzione, cfr. Consiglio di Stato, IV, 23 dicembre 2019, n. 8703; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 15 maggio 2020, n. 828).
Quindi, in ragione delle suesposte coordinate ermeneutiche non possono individuarsi esenzioni in ordine al pagamento del contributo di costruzione diverse da quelle espressamente previste dalla legge, come pure non possono prevedersi riduzioni del suo importo non chiaramente individuate dal legislatore.
2.2. Inoltre, lo stesso art. 36, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, prevede che “in caso di gratuità a norma di legge, [il contributo è individuato] in misura pari a quella prevista dall’articolo 16”, con ciò volendo significare che la base di riferimento per il calcolo della sanzione deve essere quella del contributo ordinario e nella misura integrale indicata dalla legge, ossia dal richiamato art. 16 del medesimo Decreto, mentre non possono essere considerate le esenzioni o riduzioni previste dal successivo art. 17 (tra le quali rientra anche la riduzione per l’efficientamento energetico: cfr. comma 4-bis), non oggetto di esplicito richiamo nel citato art. 36.>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2644 del 28 novembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo non fa sorgere automaticamente il diritto al risarcimento del danno, se il richiedente non prova la “spettanza” del c.d. bene della vita, vale a dire dell’utilità finale cui lo stesso aspira.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2569 del 418 novembre 2022.


Il TAR Brescia osserva che:
<<Come già chiarito nell’ordinanza cautelare n. 384/2020 di questo Tribunale, “le convenzioni urbanistiche sono contratti con effetti permanenti, a cui nessuna delle parti può sottrarsi unilateralmente. La previsione di un termine decennale costituisce un parametro temporale che qualifica come rilevante l’inadempimento delle parti rimaste inerti”.
La convenzione di lottizzazione, rientrando nel genus degli accordi ex art. 11 l. 241/1990, è, infatti soggetta ai “principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti” e, quindi, anche alla disciplina in materia di risoluzione del contratto.
Non potendo trovare nel caso di specie applicazione l’art. 1457 c.c., non avendo le parti attribuito natura essenziale al termine decennale fissato in convenzione per l’esecuzione dei lavori, la semplice scadenza dello stesso non determina sic et simpliciter la risoluzione del contratto.
Piuttosto, a fronte di un inadempimento imputabile, qual è il ritardo nell’esecuzione dei lavori, potrebbe, ricorrendone i presupposti, trovare applicazione l’art. 1453 c.c. che attribuisce alla parte non inadempiente il potere di sciogliere il vincolo contrattuale.
Trattasi, tuttavia, di strada non percorribile da parte di -OMISSIS- giacché la mancata esecuzione dei lavori è alla stessa addebitabile.
Non risulta, parimenti, condivisibile l’affermazione per cui il contratto si sarebbe sciolto alla luce del venir meno della causa del contratto, non essendo state indicate sopravvenienze tali da consentire già in astratto di poter affermare essere venuta meno la ragione concreta a base della convenzione in esame; in ogni caso la causa del contratto non è data dalla somma degli opposti interessi ma dalla loro sintesi, motivo per cui il venir meno dell’interesse in capo alla ricorrente all’accordo concluso non determina, per ciò solo, il venir meno dell’elemento funzionale dell’accordo, soprattutto quando, come nel caso di specie, gli altri contraenti conservino un interesse alla realizzazione del programma negoziale, come del resto risulta dal fatto che i lottizzanti minori hanno chiesto al Comune di prorogare la convenzione.>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1153 del 18 novembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che l’articolo 32, comma 4, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, prevede che “ciascun concorrente non può presentare più di un’offerta”. Il principio di unicità dell’offerta, che impone agli operatori economici di presentare una sola proposta tecnica e una sola proposta economica, al fine di conferire all’offerta un contenuto certo ed univoco, è posto a presidio – da un lato – del buon andamento, dell’economicità e della certezza dell’azione amministrativa, per evitare che la stazione appaltante sia costretta a valutare plurime offerte provenienti dal medesimo operatore economico, tra loro incompatibili, e che perciò venga ostacolata nell’attività di individuazione della migliore offerta e – dall’altro – a tutela della par condicio dei concorrenti, poiché la pluralità delle proposte attribuirebbe all’operatore economico maggiori possibilità di ottenere l’aggiudicazione o comunque di ridurre il rischio di vedersi collocato in posizione deteriore, a scapito dei concorrenti fedeli che hanno presentato una sola e univoca proposta corrispondente alla prestazione oggetto dell’appalto, alla quale affidare la loro unica ed esclusiva chance di aggiudicazione. La presentazione di un’unica offerta capace di conseguire l'aggiudicazione, infatti, è il frutto di un’attività di elaborazione nella quale ogni impresa affronta il rischio di una scelta di ordine tecnico, che la stazione appaltante rimette alle imprese del settore, ma che comporta una obiettiva limitazione delle possibilità di vittoria (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 14 settembre 2010, n. 6695; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 25 maggio 2020, n. 928; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 11 febbraio 2019, n. 193).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2594 del 22 novembre 2022.


Il TAR Milano ricorda che la giurisprudenza ha affermato che i motivi di ricorso non devono essere necessariamente rubricati in modo puntuale, né devono essere espressi con formulazione giuridica assolutamente rigorosa, bastando che siano esposti con specificità sufficiente a fornire almeno un principio di prova utile alla identificazione delle tesi sostenute a supporto della domanda finale, come altresì previsto dall’art. 40 c.p.a. nel quale si richiede l’esposizione dei motivi specifici su cui si fonda il ricorso (cfr. Consiglio di Stato, III, 25 ottobre 2016, n. 4463; VI, 9 luglio 2012, n. 4006; T.A.R. Lombardia, Milano, IV, 4 ottobre 2022, n. 2178; II, 24 ottobre 2021, n. 2410; anche Consiglio di Stato, III, 7 luglio 2022, n. 5650).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2626 del 24 novembre 2022.


Il TAR Milano, dopo aver effettuato la ricognizione del quadro normativo che disciplina l’affidamento in house, osserva che:
<<La giurisprudenza, interna ed eurounitaria, formatasi sul tema dell’affidamento in house, ha chiarito che la legittima applicazione dell’istituto postula l’effettiva sussistenza di un “controllo analogo”, anche nelle declinazioni del controllo a cascata e del controllo analogo congiunto, con la precisazione che esso si sostanzia in una forma di eterodirezione della società, tale per cui i poteri di governance non appartengono agli organi amministrativi, ma “al socio pubblico controllante”, che si impone a questi ultimi con le proprie decisioni (così Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 6460/2020).
Il controllo analogo è tale se, per effetto della sua concreta modulazione, la società affidataria non è terza rispetto all’ente affidante, ma una sua articolazione, sicché tra socio pubblico controllante e società sussiste “una relazione interorganica e non intersoggettiva”, perché il controllo esercitato deve corrispondere a quello che l’ente pubblico esplica sui propri servizi.
La giurisprudenza eurounitaria specifica che tale relazione deve intercorrere tra soci affidanti e società, “non anche tra la società e altri suoi soci (non affidanti o non ancora affidanti), rispetto ai quali la società sarebbe effettivamente terza” (Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 6 febbraio 2020 cause C-89/19 e C-91/19).
Va, inoltre, osservato che le norme citate, laddove si riferiscono al “controllo analogo congiunto”, confermano quanto già stabilito dalla Corte di Giustizia (sin dalla sentenza 18 novembre 1999, C-107/98 - Teckal), la quale ha ammesso che, in caso di società partecipata da più enti pubblici, il controllo analogo possa essere esercitato in forma congiunta (cfr. anche sentenza 13 novembre 2008 nella causa C-324/07 - Coditel Brabant SA).
La Corte precisa che a tal fine non possono ritenersi adeguati i poteri a disposizione dei soci secondo il diritto comune, sicché è necessario dotare i soci affidanti di appositi strumenti che ne consentano l’interferenza in maniera penetrante nella gestione della società.
Il profilo ora introdotto – rilevante nel caso di specie – deve essere esaminato tenendo conto dell’art. 11, comma 9, lett. d), del citato d.l.vo n. 175 del 2016, che ha introdotto il divieto per gli statuti delle società a controllo pubblico di “istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società”.
Nondimeno, la giurisprudenza esclude la riferibilità della disposizione agli organismi in house, sicché il controllo analogo può essere realizzato anche attraverso l’istituzione, ad opera dei soci pubblici, di organi speciali ad esso funzionali.
In tal senso, si sostiene (cfr. Consiglio di Stato, 30 aprile 2018, n. 2599 e 16 luglio 2020, n. 8028) che l’esclusione, per gli organismi in house, del divieto di istituire organi speciali discenda dai seguenti profili: a) il divieto è previsto in relazione alle “società a controllo pubblico” regolate appunto dall’art. 11 e non è ripetuto nell’art. 16 dedicato alle società in house, la cui disciplina risulta, pertanto, speciale e derogatoria; b) a differenza delle società a controllo pubblico, per le quali, l’art. 2, comma 1, lett. m), del d.l.vo n. 175 del 2016 richiede che il controllo si esplichi nelle forme dell’art. 2359 cod. civ., le società in house sono sottoposte a quella forma particolare di controllo pubblico che è costituita dal controllo analogo (come chiaramente precisato dall’art. 2, comma 1, lett. o) d.lgs. n. 175 del 2016).
Il tema è rilevante, in quanto la giurisprudenza ha precisato che una partecipazione “pulviscolare” sia in principio inidonea a consentire ai singoli soggetti pubblici partecipanti di incidere effettivamente sulle decisioni strategiche della società, cioè di realizzare una reale interferenza sul conseguimento del c.d. fine pubblico di impresa in presenza di interessi potenzialmente contrastanti e, quindi, a palesare la sussistenza di un controllo analogo almeno congiunto.
Nondimeno, proprio in ragione della non riferibilità dell’art. 11, comma 9, lett. d), del citato d.l.vo n. 175 del 2016 agli organismi in house, si è chiarito che i soci pubblici ben possono sopperire a detta debolezza stipulando patti parasociali al fine di realizzare un coordinamento tra loro, in modo da assicurare il “loro controllo sulle decisioni più rilevanti riguardanti la vita e l’attività della società partecipata” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 23 gennaio 2019, n. 578).
La tipizzazione normativa e l’elaborazione giurisprudenziale hanno condotto ad enucleare diverse “forme di in house” connotate da specificità rispetto all’ in house “tradizionale” (sul punto Consiglio di Stato, sez. I, 26 giugno 2018, n. 1645).
Si è già detto che l’art. 5, comma 2, del d.l.vo 2016 n. 50 introduce il c.d. “in house a cascata” caratterizzato dalla presenza di un controllo analogo “indiretto”, ossia esercitato da una persona giuridica diversa da quella affidante, ma a sua volta controllata allo stesso modo da quest’ultima.
In altri termini, l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo analogo sull’organismo in house; anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è comunque ammesso l’affidamento diretto.
Sul punto, vale ricordare che già in passato la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 11 maggio 2006 C-340/04) configurava un legittimo controllo analogo anche in caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo, determinandosi così un in house a cascata.
E’ configurabile, inoltre, il c.d. “in house frazionato o pluripartecipato”, che trova fondamento positivo nel citato art. 5, commi 4 e 5, ed è centrato sul concetto di “controllo congiunto”, i cui caratteri sono definiti dalle disposizioni appena richiamate.
Si definisce “in house invertito o capovolto” quello descritto dall’art. 5, comma 3, del d.l.vo 2016 n. 50, che si verifica quando il soggetto controllato, essendo a sua volta amministrazione aggiudicatrice, affida un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza pubblica.
Questa ipotesi evidenzia una sorta di bi-direzionalità dell’in house; la cui giustificazione risiede nel fatto che mancando una relazione di alterità, i rapporti tra i due soggetti sfuggono al principio di concorrenza qualunque sia la “direzione” dell’affidamento.
Diverso è il c.d. “in house orizzontale”, che presuppone la presenza di tre soggetti.
Un soggetto A aggiudica un appalto o una concessione a un soggetto B, ma tanto A quanto B sono controllati da un altro soggetto C, secondo i canoni propri del controllo analogo.
In tale ipotesi non vi è alcuna relazione diretta tra A e B, ma entrambi sono in relazione di in house con il soggetto C, che così controlla sia A, sia B. Insomma, l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro (cfr. giur cit.).>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2535 del 15 novembre 2022.


Il TAR Milano osserva che:
<<Secondo la concezione tradizionale, la figura della “ristrutturazione edilizia” presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa dalla giurisprudenza la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, ha profondamente innovato la disciplina modificando l’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale stabilisce ora che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione, qualificando come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli di ricostruzione, consente di sostituire gli immobili in precedenza andati distrutti con nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la realizzazione di nuove costruzioni. Si tutela in questo modo, non solo l’interesse del privato, ma anche l’interesse pubblico volto ad evitare la permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa qualificarsi come ristrutturazione, è necessario che il nuovo edificio abbia le stesse dimensioni di quello crollato. Questa limitazione si ricava dall’ultima parte della norma la quale, come visto, richiede che sia possibile accertare la “preesistente consistenza” dell’immobile.
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente è stata respinta proprio in quanto si è ritenuta non dimostrata la preesistente consistenza dell’immobile, per risolvere la controversia in esame, occorre stabilire cosa si intenda per “preesistente consistenza”, quale sia il livello di precisione preteso dalla norma con riguardo a tale elemento e in che modo ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione di “preesistente consistenza”), possono ritenersi condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza secondo cui gli interventi di ripristino di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 sono ammissibili a condizione che siano determinabili le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente (fra cui volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancanza di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma. Parimenti condivisibile risulta l’affermazione secondo cui la verifica riguardante gli elementi necessari per determinare la preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (cfr. Cass. pen. Sez. III, 28 aprile 2020, n. 13148; id., 8 ottobre 2015, n. 45147).
Quando l’edificio crollato è stato realizzato a seguito del rilascio di un titolo edilizio, la preesistente consistenza può essere facilmente dimostrata mediante la produzione di quel titolo e della documentazione progettuale ad esso allegata nella quale sono riportate con precisione le caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso in esame, l’immobile sia stato edificato in epoca antecedente all’anno 1967, quando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, non essendo in questo caso possibile disporre della suindicata documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste specifiche ipotesi, l’amministrazione non possa pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale, fermo restando ovviamente che, anche in questo caso, la prova deve comunque riguardare tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da quella consistente nella documentazione progettuale (e che inevitabilmente possiede un minor grado di precisione rispetto a quest’ultima) è del resto ammessa anche dalla giurisprudenza sopra richiamata la quale afferma che la prova della preesistente consistenza può essere fornita anche attraverso la produzione di aerofotogrammetrie (cfr. Cass. pen. Sent. n. 45147 del 2015 cit.). Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza del giudice amministrativo, il quale ammette che l’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato può fondarsi anche su documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio distrutto (in tal senso, cfr. T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 6 luglio 2020, n.517; T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 23 dicembre 2019, n. 6098; T.A.R. Liguria, sez. I, 11 giugno 2020, n. 364).
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento di queste diverse prove, l’Amministrazione debba dare applicazione ai principi di buona fede e proporzionalità, tenendo conto anche delle caratteristiche dell’intervento che si intende realizzare, nel senso che il livello di precisione richiesto della prova fornita deve essere proporzionale all’importanza di tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se l’immobile che si intende realizzare ha dimensioni modeste e incide in maniera poco significativa sul carico urbanistico, il permesso di costruire deve essere rilasciato quando dalla documentazione prodotta in sede procedimentale emerga che il manufatto da realizzare avrà sostanzialmente le stesse dimensioni di quello andato distrutto, e ciò anche nel caso in cui non sia possibile risalire con estrema precisione a tutti i dati dimensionali di quest’ultimo.>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2566 del 18 novembre 2022.




Il TAR Milano ricorda che, come precisato dalla giurisprudenza, gli appalti pubblici devono pur sempre essere affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, giacché le acquisizioni in perdita porterebbero inevitabilmente gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre che ad un probabile contenzioso: laddove i costi non considerati o non giustificati siano tali da non poter essere coperti neanche tramite il valore economico dell’utile stimato, è evidente che l’offerta diventa non remunerativa e, pertanto, non sostenibile (Consiglio di Stato, VI, 4 aprile 2022, n. 2442; anche, III, 10 luglio 2020, n. 4451).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2567 del 18 novembre 2022.


Il TAR Milano, con riferimento alla composizione della commissione per l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense, ritiene che:
<< per effetto dell’art. 47 L. 247/2012, applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto di causa, il principio di piena fungibilità deve ritenersi abrogato. In virtù del nuovo assetto normativo, è pertanto illegittimo l’operato delle sottocommissioni nelle quali non siano presenti tutte le tre provenienze professionali di cui all’art. 47 medesimo: «dalla intervenuta abrogazione del suddetto principio di fungibilità dei commissari di esame contenuto sub art. 22 comma V del r.d.l. n. 1578/1933 e non riprodotto nel vigente art. 47 della legge n. 247/2012 consegue quindi che è viziato l'operato delle sottocommissioni di esame che procedano alla elaborazione dei subcriteri, alla correzione degli elaborati scritti ed alla celebrazione dell'esame orale in assenza di commissari appartenenti a ciascuna delle categorie professionali indicate sub art. 47 della legge n. 247/2012» (Ad. Plen., 18/2018, cit.).>>

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2586 del 21 novembre 2022.


Il TAR Brescia osserva che:
<<pare opportuno operare l’analisi intorno all’applicabilità dell’art. 103, co. 2-bis, del D.L. n.18/2020 dal dato normativo; la norma in esame afferma che “Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, in scadenza tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020, sono prorogati di novanta giorni. La presente disposizione si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98”.
Mentre la prima parte della disposizione, ossia quella che dispone la proroga di 90 giorni, fa riferimento alle convenzioni la cui scadenza è fissata “tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020”, la seconda parte, che inerisce specificamente alle convenzioni che, come quella rilevane nel caso di specie, “hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69”, esordisce con la frase “La presente disposizione si applica anche ai diversi termini”.
Risulta evidente, quindi, come la cornice temporale fissata dalla prima parte della disposizione non vale per le convenzioni che “hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69”, diversamente non avrebbe alcun senso il riferimento “ai diversi termini”; sarebbe stato, infatti, sufficiente dire che “La presente disposizione si applica anche alle convenzioni di lottizzazione …”, ma così non è.
Evidente l’intento che sorregge l’intervento normativo, ossia quello di allargare la platea delle convenzioni per le quali opera la proroga.>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1153 del 18 novembre 2022.


La Corte di Giustizia UE statuisce:
<<1) L’articolo 18, paragrafo 1, e l’articolo 21, paragrafo 1, in combinato disposto con l’articolo 50, paragrafo 4, e l’articolo 55, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE,
devono essere interpretati nel senso che:
essi ostano a una normativa nazionale in materia di aggiudicazione di appalti pubblici la quale imponga che, con la sola eccezione dei segreti commerciali, le informazioni trasmesse dagli offerenti alle amministrazioni aggiudicatrici siano integralmente pubblicate o comunicate agli altri offerenti, nonché a una prassi delle amministrazioni aggiudicatrici consistente nell’accogliere sistematicamente le richieste di trattamento riservato motivate da segreti commerciali.
2) L’articolo 18, paragrafo 1, l’articolo 21, paragrafo 1, e l’articolo 55, paragrafo 3, della direttiva 2014/24,
devono essere interpretati nel senso che l’amministrazione aggiudicatrice:
– deve, al fine di decidere se rifiutare, a un offerente la cui offerta ammissibile sia stata respinta, l’accesso alle informazioni presentate dagli altri offerenti in merito alla loro esperienza pertinente e alle relative referenze, all’identità e alle qualifiche professionali del personale proposto per eseguire l’appalto o dei subappaltatori, nonché alla concezione del progetto la cui realizzazione è prevista nell’ambito dell’appalto e alle modalità di esecuzione di quest’ultimo, valutare se tali informazioni abbiano un valore commerciale che non si limita all’appalto pubblico di cui trattasi, informazioni la cui divulgazione può pregiudicare legittimi interessi commerciali o la concorrenza leale;
– può, inoltre, rifiutare l’accesso a tali informazioni qualora la divulgazione di queste ultime, ancorché prive di siffatto valore commerciale, ostacoli l’applicazione della legge o sia contraria all’interesse pubblico, e
– deve, in caso di rifiuto dell’accesso integrale alle informazioni, concedere a detto offerente l’accesso al contenuto essenziale delle stesse informazioni, di modo che sia garantito il rispetto del diritto a un ricorso effettivo.
3) L’articolo 18, paragrafo 1, della direttiva 2014/24, in combinato disposto con l’articolo 67, paragrafo 4, di quest’ultima,
deve essere interpretato nel senso che:
esso non osta a che siano incluse, nei criteri di aggiudicazione dell’appalto, la «concezione dello sviluppo del progetto» la cui realizzazione è prevista nell’ambito dell’appalto pubblico di cui trattasi e la «descrizione delle modalità di esecuzione» di tale appalto, a condizione che tali criteri siano accompagnati da specifiche che consentano all’amministrazione aggiudicatrice una valutazione efficace ed obiettiva delle offerte presentate.
4) L’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014,
deve essere interpretato nel senso che:
qualora si accertino, in sede di esame di un ricorso proposto contro una decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico, un obbligo a carico dell’amministrazione aggiudicatrice di dare al ricorrente accesso a informazioni trattate a torto come riservate e una violazione del diritto a un ricorso effettivo derivante dalla mancata divulgazione di dette informazioni, tale accertamento non deve necessariamente comportare l’adozione, da parte di detta amministrazione aggiudicatrice, di una nuova decisione di aggiudicazione dell’appalto, a condizione che il diritto processuale nazionale consenta al giudice adito di adottare, nel corso del procedimento, provvedimenti che ristabiliscano il rispetto del diritto a un ricorso effettivo oppure gli consenta di stabilire che il ricorrente può proporre un nuovo ricorso avverso la decisione di aggiudicazione già adottata. Il termine per la proposizione di un siffatto ricorso deve decorrere solo dal momento in cui detto ricorrente ha accesso a tutte le informazioni qualificate a torto come riservate.>>
Corte di Giustizia UE, Sez. IV, 17 novembre 2022 (causa C-54/21).


Il TAR Milano, richiamando la propria giurisprudenza, precisa che l’abbandono di rifiuti è un illecito che è qualificabile come di condotta e non di evento e dunque non può dare luogo in automatico ad una responsabilità solidale.

TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2538 del 15 novembre 2022.


Il Tar Milano esamina un ricorso con il quale si impugna un’ordinanza di inibizione all’utilizzo di impianti di diffusione sonora e svolgimento di manifestazioni ed eventi con diffusione di musica o utilizzo di strumenti musicali in periodo notturno, in quanto a seguito di controlli svolti da A.R.P.A. Lombardia, era stato accertato che nell’esercizio gestito dal ricorrente si era verificato il superamento dei valori limite differenziali di immissione.
Il ricorrente contesta la violazione dell’articolo 7 della legge 241/1990 per mancata partecipazione al procedimento amministrativo, asserendo che avrebbe potuto depositare in sede procedimentale l’esito delle indagini svolte in precedenza, nell’ambito delle quali era stato riscontrato un rapporto tra il livello di rumore ambientale e quello di rumore residuo rientrante nei limiti di legge, diversamente da quanto invece accertato dall’A.R.P.A. Lombardia.
Il Tar accoglie il motivo e osserva:
<<il provvedimento risulta illegittimo per violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, non sanabile ai sensi dell’art. 21 octies l. cit., giacché le modalità di svolgimento della misurazione svolta nel procedimento amministrativo per inquinamento acustico, inciso dall’assenza di un tecnico di fiducia della parte non avvisata, possono averne significativamente inficiato l’esito.
Deve ritenersi quindi fondato il ricorso nella parte in cui si lamenta la violazione delle garanzie procedimentali rappresentando che se alla ricorrente fosse stato consentito di partecipare la stessa avrebbe potuto fornire un apporto collaborativo importante al procedimento in particolare versando in atti i risultati delle indagini svolte in proprio …
Non trova d’accordo il Collegio, quindi, il chiarimento reso dal Comune … secondo cui sarebbe stato controproducente dal punto di vista dell’attendibilità degli esiti delle rilevazioni mettere, potenzialmente, l’interessato in condizione di modificare modi e tempi di svolgimento della sua attività in relazione all’effettuazione delle misurazioni, tenuto conto che uno dei dati in contestazione e da verificare in contraddittorio è proprio quello riferito al c.d. “rumore residuo” che dovrebbe risultare oggettivo in quanto riferito al rumore di base di sottofondo.>>.
TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 2514 del 14 novembre 2022.


Secondo il TAR Brescia, l'ordinanza di rimozione dei rifiuti abbandonati ex art. 192, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante la rilevanza dell'eventuale apporto procedimentale che tali soggetti possono fornire, quanto meno in riferimento all'ineludibile accertamento delle effettive responsabilità per l'abusivo deposito di rifiuti. Tale provvedimento, infatti, presupponendo l'accertamento della responsabilità a titolo di dolo o colpa, richiede l'assicurazione di quelle garanzie di partecipazione procedimentale, cui la comunicazione di avvio del procedimento è meramente strumentale, tali da assicurare un accertamento in contraddittorio, legislativamente previsto, oltre che in ordine all'esatta localizzazione dei rifiuti, soprattutto, per l'individuazione dell'organo pubblico effettivamente competente, e, conseguentemente, per quanto attiene all'imputabilità, a titolo di colpa, dello stato di degrado e incuria dei luoghi interessati (in tal senso, tra le tante, Consiglio di Stato, sez. II, 21/06/2013, n. 1033; Consiglio di Stato, sez. V, 25/08/2008, n. 4061; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 28/05/2019, n. 497; T.A.R. Milano, sez. IV, 14/01/2013, n. 93).

TAR Lombardia, Brescia, I, n. 1069 del 3 novembre 2022


Il TAR Milano osserva che per giurisprudenza consolidata, la piena conoscenza - antecedente (alla) o sostitutiva (della) mancata pubblicazione - fa comunque decorrere il termine perentorio di impugnazione sancito dall’art. 29 c.p.a.; in particolare, la piena conoscenza coincide con la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidenti la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso (Cons. Stato, sez. V, n. 1156 del 2009, sez. IV, n. 5870 del 2022).
L'indagine sulla "piena conoscenza" ai fini del decorso del termine decadenziale di impugnazione non deve essere unicamente fondata su elementi formali, sempre che essa sia seria circostanziata e rigorosa, e ben può la prova essere data anche mediante il ricorso a presunzioni semplici (cfr. Cons. Stato sez. IV, n. 6086 del 2022; n. 3825 del 2016; n. 1761 del 2022; 21 marzo 2016, n. 1135; 22.11.2019, n. 7966; 23.5.2018, n. 3075; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 14/12/2021, n.3741, secondo cui la piena conoscenza si realizza anche a prescindere dal rispetto degli adempimenti formali concernenti la comunicazione tutte le volte in cui il destinatario abbia avuto in ogni caso piena contezza dell'esistenza dell'atto e del contenuto lesivo).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2334 del 25 ottobre 2022.


Il TAR Milano ricorda che la giurisprudenza è costante nell’affermare, anche in ipotesi in cui la legge di gara neppure specifichi l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente, che la mancata indicazione separata e distinta dei costi della manodopera (così come degli oneri interni) “è strutturata (proprio in ragione della specifica responsabilizzazione dichiarativa del concorrente e della agevolazione delle corrispondenti verifiche rimesse alla stazione appaltante) come una componente essenziale dell'offerta economica, presidiata da una clausola espulsiva” (Consiglio di Stato sez. V, 08/04/2021, n.2839; Consiglio di Stato sez. V, 22/02/2021, n.1526; Cons. Stato, Ad.Plen., sent. n. 7 e n. 8 del 2 aprile 2020; Corte di Giustizia, sez. IX, 2 maggio 2019 in causa C-309/18).
Inoltre, sempre per pacifica giurisprudenza, la modifica dei costi della manodopera - introdotta nel corso del procedimento di verifica dell'anomalia - comporta un'inammissibile rettifica di un elemento costitutivo ed essenziale dell'offerta economica, che non è suscettibile di essere immutato nell'importo, al pari degli oneri aziendali per la sicurezza, pena l'incisione degli interessi pubblici posti a presidio delle esigenze di tutela delle condizioni di lavoro e di parità di trattamento dei concorrenti, come imposte dall'art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016 (v., ex plurimis, Cons. Stato sez. V, n. 7943, n. 6462, n. 1449 del 2020; v. anche Cons. Stato, Ad. plen., 2 aprile 2020, n. 7).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2393 del 31 ottobre 2022.


Il TAR Brescia respinge un motivo di ricorso con il quale si lamenta l’illegittimità di una previsione di una pista ciclopedonale contenuta in una variante al PGT per contrasto con gli artt. 17 e 19 del PTR che conterrebbero disposizioni ambientali vincolanti per la pianificazione di livello inferiore ai sensi dell’art. 76, comma 2, della LR urbanistica n. 12/2005 (LUR) e osserva:
<<a) Preliminarmente si osserva che l’art. 76, comma 2, della LUR stabilisce che “Le prescrizioni attinenti alla tutela del paesaggio contenute nel PTR sono cogenti per gli strumenti di pianificazione dei Comuni e sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti di pianificazione ...”.
Tale disposizione, poiché comporta una limitazione alla potestà pianificatoria riconosciuta ai Comuni dalla Costituzione (cfr. Corte Cost. n. 179/2019), costituisce una norma di stretta interpretazione.
b) Oltre a ciò si rileva che, nel caso di specie, l’art. 17 del PTR prevede come “obiettivo generale” quello il “recuperare e preservare l'alto grado di naturalità, tutelando le caratteristiche morfologiche e vegetazionali dei luoghi”.
Ebbene la previsione dell’“obiettivo generale” evoca un obiettivo da perseguire e non è quindi assimilabile alla “prescrizione” di cui all’art. 76, comma 2 della LUR invocato dalla ricorrente che, invece, presenta un effetto cogente diretto.
c) L’art. 19, comma 5, stabilisce che nei territori contermini ai laghi “le priorità di tutela e valorizzazione del paesaggio sono specificamente rivolte a garantire la coerenza e organicità degli interventi riguardanti sponde e aree contermini al fine di salvaguardare l'unitarietà e la riconoscibilità del lungolago; la pianificazione locale, tramite i P.T.C. di parchi e province e i P.G.T., e gli interventi di trasformazione devono quindi porre specifica attenzione alle seguenti indicazioni paesaggistiche, che specificano ed integrano quanto indicato al precedente comma 4:
- salvaguardia delle sponde nelle loro connotazioni morfologiche e naturalistiche, strettamente relazionate con i caratteri culturali e storico-insediativi, che contribuiscono a definire identità, riconoscibilità e valori ambientali della consolidata immagine dei paesaggi rivieraschi, con specifica attenzione alla conservazione degli spazi inedificati, al fine di evitare continuità del costruito che alterino la lettura dei distinti episodi insediativi;
- [.....];
- valorizzazione del sistema di fruizione pubblica del paesaggio lacuale, costituito da accessi a lago e da percorsi e punti panoramici a lago, correlata all'estensione delle aree ad esclusivo uso pedonale o a traffico limitato, con previsione di adeguate strutture di sosta a basso impatto visivo, escludendo di massima il lungolago ....”
Anche quest’ultima disposizione:
i) non ha carattere prescrittivo ma fissa semplicemente un “obiettivo”, come del resto ammette anche la ricorrente, con esclusione degli effetti cogenti di cui all’art. 76, comma 2 della LUR;
ii) non impedisce gli interventi modificativi delle sponde del lago, ma stabilisce come obiettivo proprio quello della “valorizzazione del sistema di fruizione pubblica del paesaggio lacuale, costituito da accessi a lago e da percorsi e punti panoramici a lago, correlata all'estensione delle aree ad esclusivo uso pedonale o a traffico limitato, con previsione di adeguate strutture di sosta a basso impatto visivo, escludendo di massima il lungolago ....”.
Quindi, non solo non sono vietate le piste ciclabili, ma esse sono inquadrabili nell’obiettivo della valorizzazione e della fruizione pubblica, anche perché la pista in questione avrà uno sviluppo omogeneo per tutto l’anello delle sponde lacuali, conseguendo l’obiettivo della “organicità degli interventi riguardanti sponde e aree contermini al fine di salvaguardare l'unitarietà”.
Infine l’inciso per cui “di massima” si deve escludere il “lungolago” non osta alla previsione della pista ciclabile, sia perché l’uso dell’avverbio “di massima” non è preclusivo, sia perché esso appare rivolto a limitare interventi diversi di quelli ciclopedonali, ossia l’accesso con autoveicoli per le menzionate aree che è ammesso purché per le sole zone a “traffico limitato” e, quindi, è logico che esso possa venire escluso dal lungolago.
In conclusione la previsione della pista ciclopedonale da parte dell’impugnata variante al P.g.t. non contrasta le citate disposizioni del PTR.>>
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 1119 del 11 novembre 2022.


Il TAR Brescia esamina un motivo di ricorso avverso l’approvazione di una variante al PGT, con cui si lamenta la violazione dell’art. 78 del D.lgs. n. 267/2000 nonché dei principi di buon andamento e imparzialità per un asserito conflitto di interessi di alcuni consiglieri comunali che hanno partecipato alla votazione, e lo ritiene inammissibile in quanto:
<<La ricorrente non ha precisato quale sia il proprio interesse specifico e concreto ad ottenere l’annullamento della delibera impugnata.
Tale interesse - ai sensi dell’art. 78 del TUEL - deve consistere nella dimostrazione che il consigliere comunale che ha votato malgrado il conflitto di interesse, abbia arrecato (o potuto arrecare) un pregiudizio diretto anche alle aree di proprietà della ricorrente.
In assenza di tale dimostrazione non sussiste alcun interesse della ricorrente alla denuncia della violazione dell’art. 78 del TUEL giacché:
a) l’eventuale accoglimento dell’impugnazione avrebbe conseguenze soltanto su aree di proprietà altrui (Cons. Stato, sez. IV, 13 luglio 2010, n. 4542; 12 gennaio 2011, n. 133; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17 maggio 2010, n. 1526);
b) chi si ritenga pregiudicato da una previsione urbanistica estranea al conflitto di interessi degli amministratori locali direttamente incidente sulla sua proprietà, non può avvalersi di tale situazione di illegittimità per ottenere l’annullamento dell’intero strumento urbanistico, non potendo ammettersi un generico interesse strumentale alla riedizione dell’attività di pianificazione del territorio comunale, connesso alla semplice qualità di proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio medesimo, se esso non è direttamente inciso dagli atti censurati (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23 ottobre 2015, n. 5006).
Nel caso di specie la ricorrente non ha fornito alcuna dimostrazione né dell’ipotizzato “interesse diretto” di uno o più consiglieri comunali rispetto ad un’area sulla quale la variante ha inciso, né tantomeno rispetto alla previsione della pista ciclopedonale per la parte che interessa il fondo della ricorrente>>.
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1114 del 7 novembre 2022.


Il TAR Brescia osserva che l’iscrizione alla camera di commercio è espressamente richiesta dall'art. 83, comma 1, lett. a), e comma 3 d.lgs. n. 50 del 2016 solo per poter dar luogo a un primo filtro di ammissibilità delle concorrenti che risultino iscritte per l'esercizio di attività coerenti con quelle oggetto dell'appalto, che quindi si presentino come dotate della professionalità necessaria per rendere le prestazioni richieste (Consiglio di Stato sez. V, 16/12/2019, n.8515; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2019, n. 431); pertanto, la congruenza contenutistica che deve sussistere tra le risultanze descrittive del certificato camerale e l'oggetto del contratto d'appalto non deve tradursi in una perfetta e assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento, ma va appurata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale e, quindi, in virtù di una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto (TAR Lazio-Roma, Sez. II, 21 aprile 2021 n. 4672; T.A.R. Bari, sez. II , 29/03/2021, n. 550).

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 972 del 20 ottobre 2022.


Il TAR Milano osserva che l’attività di esposizione pubblicitaria sui ponteggi è da qualificare quale “servizio” ai sensi dell’art. 4.1 della Direttiva 2006/123/CE (c.d. Direttiva “Bolkenstein”), recepita nell’ordinamento interno tramite il D. Lgs. n. 59 del 2010, trattandosi di una “attività economica non salariata di cui all’art. 57 TFUE fornita normalmente dietro retribuzione”, che è sottoposta a un “regime di autorizzazione”, ossia è correlata a una decisione, formale o implicita, di un’autorità pubblica al fine di poterla esercitare. Difatti, la pubblicità esterna è subordinata al rilascio di specifica autorizzazione, con cui l’Autorità amministrativa verifica la compatibilità dell’attività pubblicitaria proposta con la sicurezza della circolazione stradale e con il decoro urbano (cfr. art. 23 del Codice della strada). La pubblicità sui ponteggi collocati su aree pubbliche sconta la limitatezza di tale risorsa – ossia delle aree pubbliche su cui vengono installati i ponteggi per lavori – e quindi non richiede soltanto il rilascio di un’autorizzazione, ma implica la concessione dello spazio pubblico attraverso il quale effettuare la pubblicità. Quindi deve farsi applicazione della normativa europea (comunque recepita in Italia), secondo la quale, in presenza di “scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili”, ovvero laddove ci si trovi al cospetto di un accesso limitato a un determinato ambito – da intendersi non solo da un punto di vista naturalistico o materiale – da parte dei soggetti in possesso dei requisiti richiesti dalla normativa, è necessario dar corso a un confronto di natura comparativa tra i potenziali aspiranti (art. 12.1 della Direttiva 2006/123/CE). Il concetto di scarsità deve essere «interpretato in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della “quantità” del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio che tramite esso viene immesso sul mercato» (Consiglio di Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 17).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2344 del 26 ottobre 2022.


Il TAR Brescia ritiene illegittima un’ordinanza ex art. 9 della legge n. 447 del 1995, con la quale, accertata la violazione dell’articolo 4 del d.P.C.M. 14 novembre 1997, è stato vietato alla società ricorrente che gestisce un locale di pubblico spettacolo (discoteca) di effettuare intrattenimento musicale e riproduzione di musica nelle aree esterne del locale, senza fissare un termine di durata dell’efficacia del provvedimento. 
Osserva il TAR che:
<<per costante giurisprudenza amministrativa, infatti, tra i presupposti per l'emissione dell'ordinanza de qua, fissati in maniera precisa dall'art. 9 della legge n. 447 del 1995, rientra anche la temporaneità della misura (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 13 maggio 2016, n. 2457). Poiché, quindi, il sindaco ha espressamente ritenuto «di non fissare un termine finale di durata dell’efficacia della presente (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2011, n. 3922 e 13 agosto 2007, n. 4448) stante la concreta situazione di pericolo accertata, rapportata alla situazione di fatto» e siccome anche la stessa giurisprudenza richiamata prevede espressamente che, anche se le ordinanze contingibili e urgenti non devono necessariamente avere un termine finale espresso, esse non possono comunque acquisire il carattere della stabilità (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2011, n. 3922), la censura è fondata e deve essere accolta>>.
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1054 del 31 ottobre 2022.


Il TAR Milano esamina la questione giuridica riguardante l’applicazione dell’art. 15 del DPR 380 del 2001 alle DIA e ora alle SCIA.
Il TAR, dopo aver ricordato che l’art. 15 citato e in particolare il comma 2 concerne la proroga dei termini di inizio e di conclusione dei lavori oggetto del permesso di costruire rilasciato dal Comune all’avente diritto ai sensi degli articoli 10 e seguenti del TU, osserva:
<<Il dato testuale e l’interpretazione dominante della giurisprudenza amministrativa escludono che l’art. 15, espressamente dettato per il permesso di costruire, possa trovare applicazione anche con riguardo ai termini di conclusione dei lavori oggetto di SCIA.
Osta a tale applicazione, innanzi tutto, il chiaro dato normativo: l’art. 23 comma 2 stabilisce che in caso di mancata ultimazione dei lavori il completamento dell’intervento è subordinato ad una nuova SCIA da presentarsi da parte del privato («La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è subordinata a nuova segnalazione.»).
Analoga norma è contenuta nell’art. 42 comma 6 della legge regionale (LR) della Lombardia sul governo del territorio n. 12/2005, secondo cui: «I lavori oggetto della segnalazione certificata di inizio attività devono essere iniziati entro un anno dalla data di efficacia della segnalazione stessa ed ultimati entro tre anni dall’inizio dei lavori. La realizzazione della parte di intervento non ultimata nel predetto termine è subordinata a nuova segnalazione».
Anche la giurisprudenza della scrivente Sezione, confermata dal Consiglio di Stato, ha concluso per l’inapplicabilità dell’art. 15 alle SCIA (ovvero alle DIA).
Sul punto sia consentito il rinvio, quali precedenti conformi ex art. 74 del c.p.a., alla sentenza di questa Sezione II n. 1764/2015, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza della Sezione IV n. 572/2017 ed all’ulteriore pronuncia di questa Sezione II n. 619/2013, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza della Sezione IV n. 5969/2013.>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2389 del 31 ottobre 2022.


Il TAR Milano ricorda che, in presenza di una partecipazione pulviscolare di diverse amministrazioni al capitale dell’organismo affidatario, il riconoscimento di una situazione di controllo analogo congiunto sostanziale ed effettivo non può prescindere dalla presenza, in via diretta o per rappresentazione, di tutte le P.A. affidanti negli organi decisionali del soggetto affidatario. In tal senso: «A proposito nell'in house pluripartecipato, le amministrazioni pubbliche in possesso di partecipazioni di minoranza possono esercitare il controllo analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali dell'organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipanti; […]. […] partecipazione del socio minoritario agli organi direttivi, requisito questo che la giurisprudenza comunitaria richiede perché in caso di "in house frazionato" sussista il controllo analogo; in caso contrario, infatti, i soci di maggioranza sono in grado di imporre le proprie scelte al socio di minoranza, già a partire dalla nomina dell'organo amministrativo (Corte Giustizia UE, III sez., 29.11.2012, n. 182). […] Le decisioni strategiche e più importanti dovrebbero essere sottoposte all'approvazione della totalità degli enti pubblici soci; in caso contrario, neppure i soci pubblici di maggioranza hanno effettivo potere di orientare le scelte determinanti della società (v. Cons. St., sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514; id., sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092; 11 agosto 2010, n. 5620;8 marzo 2011, n. 1447)» (Consiglio di Stato, III, 27 aprile 2015 n. 2154; cfr: V, 30 aprile 2018, n. 2599).

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2437 del 3 novembre 2022.