Con ricorso depositato il 15 gennaio 2015, la Regione Puglia ha impugnato, fra le altre disposizioni, l’art. 17, comma 1, lettera b), del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione
La disposizione impugnata, introduttiva dell’art. 3-bis del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, dopo aver previsto che «Lo strumento urbanistico individua gli edifici esistenti non più compatibili con gli indirizzi della pianificazione», ha stabilito che «Nelle more dell’attuazione del piano, resta salva la facoltà del proprietario di eseguire tutti gli interventi conservativi, ad eccezione della demolizione e successiva ricostruzione non giustificata da obiettive ed improrogabili ragioni di ordine statico od igienico sanitario».
Secondo la tesi della Regione Puglia, la disposizione anziché limitarsi a dettare un principio in materia di legislazione concorrente, quale il «governo del territorio», stabilirebbe una disciplina del tutto autoapplicativa ed autosufficiente, che non lascerebbe, per il suo carattere dettagliato, alcuno spazio di manovra all'iniziativa legislativa regionale

La Corte Costituzionale ha rigettato il ricorso sulla base dei seguenti rilievi:

  • la norma impugnata si propone espressamente di fornire una disciplina unitaria per quelle situazioni in cui lo strumento urbanistico locale identifichi gli edifici, insistenti su una determinata area, come non più compatibili con le linee programmatiche del Piano, consentendo, con una prescrizione evidentemente “di principio”, che le amministrazioni comunali possano favorire, quale alternativa, anche economicamente preferibile rispetto all'espropriazione, la riqualificazione delle aree attraverso forme di compensazione incidenti sull'area interessata e senza aumento della superficie coperta;
  • si tratta di un meccanismo riconducibile al sistema della cosiddetta “perequazione urbanistica”, inteso a combinare, in contesti procedimentali di “urbanistica contrattata”, il mancato onere per l’amministrazione comunale, connesso allo svolgersi di procedure ablatorie, con la corrispondente incentivazione al recupero, eventualmente anche migliorativo, da parte dei proprietari, del patrimonio immobiliare esistente: il tutto in linea con l’esplicito intento legislativo di promuovere la ripresa del settore edilizio senza, tra l’altro, aumentare, e anzi riducendo, il «consumo di suolo». 
  • tale quadro di riferimento è indubbiamente connesso alla competenza dello Stato a determinare «principi fondamentali» di settore, restando inalterata l’attribuzione ai Comuni del compito di pianificazione urbanistica e di individuazione in concreto delle aree cui si riferisce l’intervento di risanamento, con l’adozione degli appositi strumenti di concertazione perequativa e di assenso alla realizzazione delle opere;
  • la  specifica previsione secondo la quale, fino all'attuazione del Piano ai proprietari degli immobili resta salva la possibilità di eseguire tutti gli interventi conservativi che non comportino la demolizione con successiva ricostruzione, a meno che quest’ultima non sia giustificata da obiettive ed improrogabili ragioni di ordine statico od igienico sanitario, è previsione chiaramente configurabile in termini “di principio”, coerente con la prospettiva coltivata dalla disposizione nel suo complesso;
  • la circostanza, che, pur nel sistema della legislazione concorrente, una disciplina statale “di principio” non abbisogni, per divenire efficace, di specifiche disposizioni attuative, non può essere considerata come automaticamente produttiva dell’effetto di “espropriare” i legislatori regionali del loro autonomo potere di conformare la regolazione statale alle proprie specifiche esigenze. 

La sentenza della Corte Costituzionale n. 67 del 5 aprile 2016 è consultabile sul sito della Corte Costituzionale.