L’obbligo di rispettare una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dall’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, pur valendo anche quando la finestra di una parete non fronteggi l’altra parete (per essere quest’ultima di altezza minore dell’altra), e pur valendo anche quando una sola delle pareti frontistanti sia finestrata, non sussiste allorché le due pareti aderiscano in basso l’una all’altra su tutto il fronte e per tutta l’altezza corrispondente, senza interstizi o intercapedini residui; inoltre, il rispetto della distanza minima di dieci metri di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, pur invocabile in presenza di una parete finestrata che non fronteggi l’altra parete (per essere quest’ultima inferiore di altezza), va applicato solo qualora al di sotto vi sia invariabilmente un’intercapedine o un interstizio, vi siano cioè due pareti o elementi di costruzione di varia fattezza, ma pur sempre racchiudenti uno spazio vuoto tra di loro, con pericolo concreto di recare nocumento alla salubrità.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2747 del 22 luglio 2025


La disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel disporre che «alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano», intende significare che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico a un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, il quale trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali il D.M. 1444/1968. In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 2.4.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti.

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 489 dell’11 febbraio 2025


Secondo il TAR Milano non esclude l’applicazione delle norme sulle distanze minime la circostanza che le unità immobiliari in questione facciano parte dello stesso stabile ricomprendente più abitazioni autonome, essendo le distanze minime prescritte dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 riferibili a tutte le pareti (di cui almeno una finestrata) che si fronteggiano, anche se riferite a diverse porzioni di un edificio nel complesso unitario. Ricorda il TAR che sul punto la giurisprudenza ha chiarito che non può escludersi la riferibilità della predetta disposizione all’ipotesi di due corpi di fabbrica facenti parte dello stesso immobile, poiché la finalità igienico-sanitaria della disciplina normativa ne impone l’applicazione anche in simili casi. Invero, poiché l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 è finalizzato a stabilire un'idonea intercapedine tra edifici nell'interesse pubblico, e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza, non può dispiegare alcun effetto distintivo la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio ovvero di edifici distinti. Le distanze minime, pertanto, trovano applicazione – siccome funzionali alla tutela di interessi generali connessi ai bisogni collettivi di igiene e di sicurezza e non del diritto individuale di proprietà – anche nel caso in cui i due edifici frontistanti appartengano al medesimo proprietario, ovvero nell’ipotesi in cui le pareti finestrate contrapposte appartengano ai due corpi di un’unica costruzione.

TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 2087 del 8 luglio 2024


Il TAR Brescia, con riguardo a una censura relativa al mancato rispetto delle distanze minime tra fabbricati, e correlativamente delle altezze massime calcolate in rapporto alle distanze disponibili ai sensi dell’art. 9, comma 3, del DM 1444/1968, osserva che la disciplina del DM 1444/1968 non costituisce più un parametro legale invocabile nel territorio regionale, in quanto è stata dichiarata espressamente non applicabile dall’art. 103 comma 1-bis della LR 11 marzo 2005 n. 12, che, utilizzando la delega legislativa prevista dall’art. 2-bis del DPR 6 giugno 2001 n. 380, ha qualificato come inderogabile unicamente la distanza minima di 10 metri tra fabbricati negli interventi di nuova costruzione al di fuori dei piani attuativi.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 382 del 2 maggio 2023.


Secondo il TAR Brescia,
<<il presupposto di operatività dell’art. 9, co. 1 n. 2, D.M. n. 1444 del 2 aprile 1968 è l’essere in presenza di un nuovo edificio, circostanza che non ricorre nel caso di specie venendo piuttosto in rilievo un "intervento di ristrutturazione edilizia" ex art. 3, co. 1 lett. d), del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, ricomprendendo tale categoria, per espressa disposizione di legge, anche “gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti”.
Rispetto all’autorimessa di cui alla presente causa, che deriva proprio da un intervento di demolizione e ricostruzione, non può, pertanto, parlarsi di nuovo edificio giacché, come si evince dall’art. 3, co. 1 lett. e) D.P.R. cit., può discorrersi di “intervento di nuova costruzione” solo per le opere ”di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti” (tra le quali, quindi, anche quelle di cui alla lettera d) sopra richiamata)>>.
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II n. 395 del 26 aprile 2022.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Brescia osserva:

<<7.1) Preliminarmente si osserva che l’oggetto del provvedimento impugnato attiene alla distanza dell’edificio “dal confine” e non alla distanza “tra edifici” frontistanti.
La differenza tra i due parametri urbanistici è chiara.
In primo luogo a materia della distanza delle costruzioni “dal confine” è pacificamente rimessa alle scelte della pianificazione comunale e non alla normativa primaria (Cass. Civ. sez. II, 22/03/2022, n. 9264), mentre quella sulla distanza minima tra edifici è disciplinata sia dall’art. 873 del Cod. Civ. che - in via integrativa - dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
In secondo luogo i due parametri urbanistici sono diversi ed autonomi anche sotto il profilo applicativo.
L’art. 873 del Cod. Civ. richiede la distanza minima tra gli edifici di 3 metri che, tuttavia, può essere rispettata anche se un manufatto è posto sul confine e l’altro è arretrato di tre metri.
Al contrario la distanza minima dal confine impone a tutti i proprietari di edificare necessariamente mantenendo il distacco dal confine prescritto dalla pianificazione locale, non operando in tal caso il principio civilistico della “prevenzione”, con la conseguenza che anche chi costruisce per primo deve comunque rispettare la distanza minima dal confine.
Infine i due parametri si differenziano anche sotto il profilo della ratio e della finalità giacché la prima garantisce l’ordinato assetto urbanistico, mentre la seconda assolve alla funzione igienico-sanitaria di evitare la realizzazione di intercapedini insalubri.
7.2) Così inquadrata la questione si rileva l’infondatezza del motivo che pretende di far discendere l’illegittimità della norma tecnica sulle distanze degli edifici dal confine utilizzando alcune prescrizioni di dettaglio previste per la normativa sulle distanze tra edifici.
Tale operazione è errata in quanto la normativa sulla distanza tra costruzioni non è estensibile analogicamente a quella sulla distanza dal confine poiché, come si è precisato, le due discipline hanno una ratio e una finalità diverse.
Anche la giurisprudenza ha precisato che “Le due prescrizioni hanno anche una ratio diversa in quanto la previsione di una distanza tra fabbricati e quella del distacco dal confine assolvono a funzioni diverse, rivestono valenza autonoma e producono effetti tra loro distinti, talché il rispetto della prima non vale ad autorizzare la violazione o la disapplicazione della seconda” (Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 2003 n. 6506).>>

TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, n. 465 del 10 maggio 2022.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Secondo il TAR Milano:
<<1.2. Diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, non incide sull’applicabilità delle norme sulle distanze minime tra gli edifici la circostanza che l’art. 64 della Legge Regionale della Lombardia n. 12/2005 qualifichi il recupero dei sottotetti come intervento di ristrutturazione, come ormai acclarato dalla costante giurisprudenza di questo TAR, che il Collegio pienamente condivide e che ha precisato quanto segue: «L'intervento, pur essendo finalizzato al recupero del sottotetto, è comunque soggetto al rispetto della disciplina statale in tema di distanze tra edifici. […] sussiste la necessità del rispetto delle distanze di 10 mt tra pareti finestrate di edifici fronteggianti, posto che la deroga prevista dalla norma regionale (art. 64, comma 2, L.R. n. 12/2005) ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale "non può ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle dell'art. 41 quinques della legge 17 agosto 1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, e dell'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, nella parte in cui regolano le distanze tra fabbricati (Consiglio di Stato sez. VI, 05/03/2014, n. 1054)» (TAR Lombardia, Milano, II, 24 dicembre 2019, n. 2743; cfr: ibidem, 21 aprile 2021, n. 1037).
1.3. Nemmeno esclude l’applicazione delle norme sulle distanze minime la circostanza, pur rilevata da parte ricorrente, che l’unità immobiliare dei Sigg.ri ... e quella della Sig.ra ... facciano parte dello stesso stabile, essendo le distanze minime prescritte dall’art. 9 D.M. 1444/1968 applicabili a tutte le pareti (di cui almeno una finestrata) che si fronteggiano, persino se riferite a diversi corpi di fabbrica dello stesso immobile: «Né può valere la tesi della non applicabilità della norma trattandosi di corpi di fabbrica dello stesso immobile, poiché la finalità igienico-sanitaria della disciplina ne impone l'applicazione anche a simili casi. È stato infatti affermato che "essendo la norma finalizzata a stabilire un'idonea intercapedine tra edifici nell'interesse pubblico, e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 261.2001 n. 1108), sicché non può dispiegare alcun effetto distintivo la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio ovvero di edifici distinti" (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08/07/2010, n. 2461)» (TAR Lombardia, Milano, II, 24 dicembre 2019, n. 2743; cfr: ibidem, 21 aprile 2021, n. 1037).>>
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 714 del 30 marzo 2022.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano osserva che, come evidenziato dal Consiglio di Stato, interventi come quello all’attenzione del Collegio (realizzazione di una platea in cemento armato e la posa di un palo porta antenne alto 30 metri, oltre ad un pennone di 4 metri, impianti e manufatti accessori per impianti e contatori) costituiscono nuove costruzioni, come tale soggette alle regole in tema di distanze fissate dai Regolamenti comunali; osserva, infatti, il Giudice d’appello che “le infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, soggette ad una disciplina unitaria del procedimento autorizzatorio, restano, in ogni caso, nuove costruzioni che introducono trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e pertanto rimangono soggette al rispetto dei regolamenti edilizi in materia di distanza delle costruzioni, dal confine e da altri fabbricati” (Consiglio di Stato, Sez. III, 19.5.2014, n. 2521); inoltre, il Consiglio di Stato evidenzia la “specifica rilevanza del limite di distanza dalla strada limitrofa che, come è noto, opera come fascia di rispetto a salvaguardia dei superiori interessi della sicurezza della circolazione dei veicoli”.
Aggiunge il TAR che la statuizione resa dal Giudice d’appello è condivisa dal Collegio atteso che le esigenze di sicurezza a base del mantenimento di una fascia di rispetto non vengono meno in ragione dell’assimilazione ad opere di urbanizzazione primaria; del resto anche altre opere di urbanizzazione primaria sono, comunque, soggette al rispetto di tale fascia non venendo meno per tale ragione la finalità di sicurezza della circolazione dei veicoli.

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 43 del 10 gennaio 2022.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano richiama e fa proprio l’orientamento della Sezione secondo cui l’art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci (Consiglio di Stato, sez. IV, 5 ottobre 2015, n. 4628; cfr., nella giurisprudenza civile, Cassazione civile, sez. II, 20 dicembre 2016, n. 26383). L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture (T.A.R. Lombardia, Milano, II, 26 giugno 2019, n. 1484; 23 maggio 2019, n. 1168; 30 novembre 2018, n. 2706; anche Consiglio di Stato, IV, 4 febbraio 2020, n. 907; II, 14 gennaio 2020, n. 347; T.A.R. Liguria, I, 1° febbraio 2021, n. 76; in senso contrario, Consiglio di Stato, V, 11 settembre 2019, n. 6136).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II n. 1406 del 9 giugno 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.





Il TAR Milano aderisce alla giurisprudenza, sia civile sia amministrativa, che riconosce rilevanza ai fini delle distanze tra fabbricati anche alle strutture accessorie di un fabbricato, come la scala esterna, pur se scoperta, se e in quanto presenta i connotati di consistenza e stabilità (Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2014, n. 1000; Cassazione civile, sez. II, 30 gennaio 2007 n.1966; TAR Basilicata 7 dicembre 2017, n. 760; TAR Basilicata, 19 settembre 2013 n. 574).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 472 del 19 febbraio 2021.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano aderisce alla <<lettura fatta propria dalla posizione maggioritaria della giurisprudenza, secondo la quale, anche ai fini della valutazione della distanza tra gli edifici, la sporgenza da terra dei manufatti va valutata sulla base della quota originaria del terreno, e non in relazione a quella risultante dal successivo riporto del costruttore. In proposito, si è infatti affermato che: «Per stabilire le distanze legali tra costruzioni sporgenti dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i criteri per la misurazione delle altezze dei fabbricati frontistanti, che devono essere determinate con riferimento al piano di posa, che è quello dell'originario piano di campagna e non la quota di terreno sistemato» (Consiglio di Stato, IV, 18 luglio 2019, n. 5034); «Ai fini dell'osservanza delle norme del codice civile sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera» (Consiglio di Stato, IV, 8 gennaio 2018, n. 72). Del resto, ove si tenesse in considerazione la quota artificialmente determinata in seguito all’esecuzione dell’intervento edilizio, dovrebbe ritenersi che lo stacco dell'edificio dal terreno non sia ancorato a dati certi e obiettivi, ma a scelte arbitrarie, e nella sostanza non sindacabili, del proprietario dell'immobile. Ciò che non risulta ragionevole, né consono ai principi di certezza del diritto e di tutela dell’armonico sviluppo del territorio.
Identiche considerazioni devono essere svolte con riferimento alla distanza del muro di contenimento, collocato a pochi centimetri dal confine della proprietà di parte ricorrente. Anche in questo caso, infatti, la giurisprudenza, in termini condivisi dal Collegio, ha precisato che: «In materia edilizia, la realizzazione di un muro di contenimento, creato artificialmente, costituisce costruzione in senso tecnico -giuridico e, conseguentemente, detta realizzazione è assoggettata alle norme sulle distanze legali di cui all'art. 873 c.c.» (Consiglio di Stato, VI, 6 marzo 2019, n.1549)>>.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 186 del 21 gennaio 2021.


Il TAR Milano precisa che «Le controversie concernenti le distanze fra costruzioni o di queste dai confini, come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, sono assoggettate al “regime della c.d. “doppia tutela”, per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell’autore dell’attività edilizia illecita (con giurisdizione del giudice ordinario) e, dall’altro, dell’interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell’Amministrazione, con cui tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa, da far valere di fronte al giudice amministrativo” (Consiglio di Stato, IV, 14 gennaio 2016, n. 81; altresì, 3 agosto 2016, n. 3511; 31 marzo 2015, n. 1692; T.A.R. Lombardia, Milano II, 26 luglio 2017, n. 1680; 5 dicembre 2016, n. 2301). Peraltro, nella giurisdizione amministrativa i rapporti privatistici tra i confinanti vengono presi in esame solo quando siano per sé evidenti, o quando gli interessati abbiano di loro iniziativa rappresentato agli uffici comunali eventuali contese in grado di incidere sulla legittimazione a chiedere il titolo edilizio (T.A.R. Lombardia, Brescia, I, 26 marzo 2019, n. 276); difatti, l’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, richiedendo al Comune la verifica dell’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non impone di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma ha la finalità di consentire di accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso. In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla P.A. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio (T.A.R. Lombardia, Milano, II, 23 dicembre 2019, n. 2729).

Tuttavia, si deve escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, essendo necessaria soltanto una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex multis, Consiglio di Stato, V, 17 giugno 2014, n. 3096; IV, 6 marzo 2012, n. 1270; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 26 giugno 2019, n. 1486; 8 aprile 2019, n. 767; 21 gennaio 2019, n. 112; 13 settembre 2018, n. 2065; 31 gennaio 2017, n. 235; T.A.R. Campania, Napoli, VIII, 5 novembre 2015, n. 5137)».

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1643 del 4 settembre 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


 

Osserva il TAR Milano che:

  • «la previsione di un distacco minimo tra edifici confinanti costituisce una innovazione del codice civile sardo, poi ripresa dal codice del 1895 e dal vigente codice civile. Si tratta di previsione il cui fondamento è ravvisato nella necessità di salvaguardare, oltre agli interessi dei proprietari frontisti, l’igiene pubblica, evitando che gli edifici vengano ad essere privati di aria e di luce e che si abbia scolo e ristagno di acque tra una costruzione e l’altra. Lo conferma una costante giurisprudenza di legittimità, risoluta nell’affermare come la ratio della previsione sia quella di evitare possibili pregiudizi per l’igiene e la salubrità, aggiungendo, inoltre, come la tutela di tali beni sia immediatamente realizzata dal legislatore che presume foriere di insalubrità distanze inferiori a quella imposta. Ne consegue l’impossibilità per il Giudice di procedere ad ogni indagine sull’idoneità dell'intercapedine ad arrecare il pregiudizio per l'igiene e la salubrità dell'ambiente (cfr., ex multis, Cassazione civile, Sez. II, 28 settembre 2018, n. 23543). Si evidenzia, inoltre, come la previsione operi anche nel caso in cui, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d'intercapedini dannose (Cassazione civile, Sez. II, 23 maggio 2019, n. 14084). In sostanza, la previsione opera ogniqualvolta in cui si realizzi una costruzione (nomen actionis che ricomprende, tra l’altro, anche le sopraelevazioni o gli avancorpi a costruzione esistente, che comportino un aumento di volumetria) che crei una intercapedine c.d. dannosa.
  • … Individuate ratio e finalità della previsione è agevole comprendere la portata del sintagma eccettuativo che ne esclude l’operatività in caso di costruzioni unite o aderenti. L’unione deve, infatti, ritenersi come l’integrale congiunzione degli edifici che in radice esclude la possibilità di formazione dell’intercapedine. Stessa constatazione vale per l’aderenza che comporta la costruzione lungo il primo edificio ma senza alcun appoggio allo stesso».

 

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1485 del 31 luglio 2020.

La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


Il TAR Milano, ricorda che “Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela”.


TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 117 del 20 gennaio 2020.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.



Il TAR Milano precisa che la normativa regionale (art. 63 e segg. L.R. 12/2005) che favorisce il recupero dei sottotetti ha quale presupposto per il recupero abitativo un volume sottotetto già esistente passibile di riutilizzo a fini abitativi; ciò richiede che il sottotetto abbia, in partenza, dimensioni tali da essere praticabile e da essere abitabile, sia pure con gli aggiustamenti che occorrono per raggiungere i requisiti minimi di abitabilità; solo a queste condizioni il "recupero", che la stessa legge regionale classifica come "ristrutturazione", è effettivamente ascrivibile a tale categoria di interventi, come definita dall'art. 3 D.P.R. n. 380 del 2001, la quale postula che il nuovo organismo edilizio corrisponda a quello preesistente, senza alterarne in misura sostanziale sagoma, volume e superficie; diversamente, l'intervento si risolverebbe non già nel recupero di un piano sottotetto, ma nella realizzazione di un piano aggiuntivo che eccede i caratteri della ristrutturazione per integrare un intervento di nuova costruzione (nel caso in esame, veniva dato un completo riassetto del piano, creando un nuovo piano abitabile, un nuovo volume, un nuovo terrazzo, con conseguente modifica della sagoma preesistente e il TAR ha ritenuto l’intervento in questione, pur essendo finalizzato al recupero del sottotetto, comunque soggetto al rispetto della disciplina statale in tema di distanze tra edifici).

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2743 del 24 dicembre 2019.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri


Il TAR Milano, in un ricorso con il quale parte ricorrente lamentava la violazione delle distanze legali non già in relazione all’immobile di sua proprietà ma in relazione a due diverse costruzioni, di proprietà di terzi, oggetto, tra loro, di apposita convenzione derogatoria, preso atto che nel giudizio non vengono in evidenza concreti pericoli di peggioramento sia delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre dei due immobili, sia delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile di proprietà ricorrente, precisa che tale convenzione non può essere considerata «nulla» in considerazione che le relative previsioni rientravano nella disponibilità delle parti, come, peraltro, confermato dalla eliminazione, in linea di principio, della inderogabilità delle distanze voluta, recentemente, dall’art. 2-bis del d. P.R. n. 380 del 2001, in passato affermata da una parte della giurisprudenza.


TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 2652 del 11 dicembre 2019.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri.


La Corte di Cassazione civile precisa che il principio affermato dal Consiglio di Stato, secondo il quale la distanza fra pareti di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e tutte le pareti finestrate, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, vuole dire che la distanza deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quelle principali e prescindendo dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela; ma tale principio, così come gli analoghi principi della giurisprudenza di legittimità, implica pur sempre che sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.

Corte di Cassazione, Sezioni Seconda, n. 24471 del 1 ottobre 2019.
La decisione è consultabile sul sito istituzionale della Corte di Cassazione, sezione SentenzeWeb.


Il Consiglio di Stato ribadisce il principio per cui le previsioni di cui all'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 — riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici — essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l'igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose, devono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei Comuni, che si devono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le norme del succitato d.m. n. 1444 del 1968 la propria efficacia dall'art. 41 quinquies comma 8, l. 17 agosto 1942, n. 1150 — in tale parte non abrogato dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 — le relative previsioni devono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi; pertanto, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.

La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 3280 del 21 maggio 2019 è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa, sezione decisioni e pareri, al seguente indirizzo.


Il TAR Milano aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci; l’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture.

La sentenza del TAR Lombardia, Milano, Sezione Seconda, n. 1484 del 26 giugno 2019 è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa al seguente indirizzo.


La Corte di Cassazione esamina il contenuto dell’art. 879 c.c. e così statuisce:
«2.2. L'art. 879, secondo comma, c.c. prevede che “Alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano".
La sentenza impugnata ha affermato, con valutazione non censurabile (né specificamente censurata) in questa sede, che l'area sulla quale si affaccia il fabbricato dei ricorrenti ( ...) vada classificata come "via pubblica", alla stregua della presunzione di demanialità ex art. 22, all. F, legge n. 2248/1865, rimasta insuperata in giudizio. Tuttavia, nonostante tale qualificazione - che condurrebbe ad escludere l'applicazione della disciplina relativa alle distanze, in base a quanto disposto dalla prima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. (per il quale, come detto, "alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze") -, la Corte di merito giunge a ritenere applicabile la disciplina del D.M. n. 1444/1968 e, con essa, la previsione delle distanze, attraverso il tramite del Regolamento edilizio locale del 1983, pervenendo a tale conclusione attraverso il richiamo generale che il menzionato secondo comma dell'art. 879 c.c. fa alla regola dell'osservanza, comunque, "delle leggi e dei regolamenti che le riguardano", tra cui appunto quelle del D.M. n.1444/1968.
Con ciò - data siffatta interpretazione del secondo comma dell'art. 879 c.c. - la regolazione delle distanze relativamente all'area pubblica non sarebbe a sua volta impedita nella fattispecie dal testo dell'art. 9 del citato D.M. n. 1444/1968 che stabilisce le distanze minime tra fabbricati, anche per quelli "tra i quali siano interposte Strade destinate al traffico di veicoli", ma "con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti". Sicché, secondo la pronuncia impugnata, l'eccezione relativa alla viabilità a fondo cieco, nella specie al "vicolo", non significherebbe che le distanze tra fabbricati indicate nel citato D.M. non trovino applicazione in dette aree chiuse, bensì soltanto che non avrebbero applicazione le maggiorazioni delle distanze, poste dall'art. 9 in rapporto proporzionale con la larghezza della strada destinata al traffico veicolare, ma resterebbe pur sempre applicabile la regolazione generale della distanza minima di metri 10.
2.3. - Questo Collegio ritiene che le argomentazioni, poste dalla Corte di merito a sostegno della sentenza impugnata, non siano condivisibili.
Ciò, in primo luogo, in ragione del recupero della regolazione delle distanze tramite la enfatizzazione della formula generale dell'ultima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. con la conseguenza che, alla stregua di questa interpretazione (contrastante con gli ordinari canoni di logica ermeneutica e, dunque, con l'art. 12 delle preleggi), si verifica un effetto palesemente distorto, per cui la medesima disposizione finisce contemporaneamente per negare (comma secondo, prima parte) e per affermare (comma secondo parte seconda) l'applicabilità delle norme sulle distanze. Laddove, si deve affermare che la parte prescrittiva che rinvia alle "leggi e regolamenti" intenda piuttosto riferirsi alla disciplina (riguardante non già le "distanze" bensì i "fabbricati") che non interferisce con la tutela del codice civile, inoperante, quanto alle distanze, rispetto alle pubbliche strade e piazze.
In merito, va richiamato il principio secondo cui l'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2, per le costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche (che va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, come nella specie, giacché il carattere pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata) attiene più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da parte della collettività (Cass. n. 6006 del 2008; cfr. anche Cass. n. 5172 del 1997; Cass. n. 2463 del 1990; Cass. n. 307 del 1982).
Sicché - tale essendo la medesima esigenza di provvedere all'interesse pubblico all'assetto viario ed alla circolazione urbana che se ne serve - non si ravvisa la ratio sottesa alla diversa 11\ disciplina nella stessa materia concernente le distanze, nell'un caso derogandone la imposizione, nel secondo caso estendendone l'imposizione. Il quale effetto si verifica altresì in quanto la esclusione della viabilità a fondo cieco, presente nell'art. 9 D.M. 1444/1968, viene confinata alle sole maggiorazioni delle distanze tra fabbricati che sono poste nello stesso articolo, giacché tale interpretazione riduttiva (al di là della sua collocazione contestuale riferita alle "maggiorazioni") finisce per determinare, nuovamente, causa di frizione logica, nel predicare allo stesso tempo un esonero ed una applicazione di una regola di distanza, che possono elidersi reciprocamente».

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Seconda civile, n. 27364 del 29 ottobre 2018 è consultabile sul sito istituzionale della Corte di Cassazione, Sezione SentenzeWeb.