Secondo il TAR Brescia le riorganizzazioni societarie infragruppo non sono mai opponibili all’amministrazione quando abbiano lo scopo, o il risultato, di rendere più difficile la tutela di interessi pubblici, nello specifico il conseguimento degli obiettivi di messa in sicurezza e di bonifica delle aree inquinate; l’attività delle società controllate deve essere vista in una logica di gruppo; queste società sono vettori delle decisioni imprenditoriali del gruppo, e quindi operano sostanzialmente come organi del gruppo; la cancellazione o la trasformazione della società controllata che in concreto gestiva l’attività all’origine dell’inquinamento non libera il gruppo, e specificamente la capogruppo, anche qualora l’attività imprenditoriale inquinante sia stata nel frattempo dismessa con successiva liquidazione della società controllata; quando la società controllata responsabile dell’inquinamento passa, per conferimento o in altra forma, a un diverso gruppo, il gruppo cedente rimane obbligato alla messa in sicurezza e alla bonifica, in applicazione della regola generale sulla cessione d’azienda ex art. 2560 comma 1 c.c., salvo consenso dell’amministrazione titolare dell’interesse pubblico coinvolto.
Aggiunge il TAR Brescia che si pone, poi, il problema se il gruppo acquirente assuma una responsabilità in solido per le obbligazioni derivanti dalla gestione aziendale pregressa; nel caso del danno ambientale la soluzione deve essere negativa, anche in questo caso, tuttavia, con la precisazione che vi sarebbe al contrario piena assunzione di responsabilità se la cessione o il conferimento avessero lo scopo di sottrarre all’amministrazione l’autore dell’inquinamento; la norma applicabile non è l’art. 2558 comma 1, c.c. che riguarda il subentro automatico dell’acquirente nei contratti aziendali, ma l’art. 2560 comma 2, c.c. che prevede la responsabilità solidale dell’acquirente per i debiti che risultano dai libri contabili obbligatori; in via analogica, quest’ultima disposizione può essere interpretata nel senso che l’acquirente risponde del danno ambientale solo se già accertato in un provvedimento amministrativo divenuto pubblico, oppure se vi era una conoscenza diretta della situazione per effetto di accordi con il cedente.

La sentenza del TAR Lombardia, Brescia, Sezione Prima, n. 802 del 9 agosto 2018 è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa al seguente indirizzo.


La Corte di Giustizia UE ritorna sulla responsabilità ambientale, basato sul principio «chi inquina paga», per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale e statuisce quanto segue:

«Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento illecito, un’altra categoria di persone solidamente responsabili di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principi generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto derivato dell’Unione.
2) L’articolo 16 della direttiva 2004/35 e l’articolo 193 TFUE devono essere interpretati nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale non solo i proprietari di fondi sui quali è stato generato un inquinamento illecito rispondono in solido, con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno ambientale, ma nei loro confronti può anche essere inflitta un’ammenda dall’autorità nazionale competente, purché una normativa siffatta sia idonea a contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata e le modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare».

Il diritto interno ungherese scrutinato dalla Corte prevede che, salvo prova contraria, la responsabilità ricada in solido tanto sul proprietario quanto sull’utilizzatore dell’immobile «in cui ha avuto luogo la condotta dannosa per l’ambiente o recante minaccia rischio per l’ambiente», e che la responsabilità del proprietario sia esclusa soltanto se indichi l’utilizzatore effettivo dell’immobile e dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, di non aver causato egli stesso il danno.
Secondo la Corte, tale previsione rafforza il regime di responsabilità previsto dalla direttiva 2004/35 e poiché, senza compromettere il principio della responsabilità ricadente in primo luogo sull’utilizzatore, ha la finalità di evitare una carenza di diligenza da parte del proprietario e di incoraggiare lo stesso ad adottare misure e a sviluppare pratiche idonee a minimizzare i rischi di danni ambientali, essa contribuisce a prevenire il danno ambientale e conseguentemente alla realizzazione degli obiettivi della direttiva 2004/35.
In particolare, nella sentenza si precisa che tale normativa nazionale comporta che i proprietari di beni immobili nello Stato membro interessato, per evitare di essere ritenuti solidalmente responsabili, debbano sorvegliare il comportamento degli utilizzatori dei loro beni e segnalarli all’autorità competente in caso di danno ambientale o minaccia di tale danno; conseguentemente il diritto interno ungherese rafforza il meccanismo previsto dalla direttiva 2004/35 identificando una categoria di persone che possono essere ritenute responsabili in solido con gli utilizzatori e trova fondamento nell’articolo 16 della direttiva 2004/35, il quale, letto congiuntamente all’articolo 193 TFUE, autorizza misure di protezione rafforzate, purché compatibili con i Trattati UE e TFUE e notificate alla Commissione europea.
Aggiunge, poi, la Corte che quando uno Stato membro, conformemente all’articolo 16 di detta direttiva e all’articolo 193 TFUE, e nel rispetto di tutte le altre disposizioni pertinenti e dei principi generali di diritto dell’Unione, identifica detti proprietari dei fondi come responsabili in solido, può prevedere sanzioni che contribuiscano all’efficacia di tale regime di protezione rafforzata; un’ammenda amministrativa inflitta al proprietario di un fondo a causa di un inquinamento illecito da lui non impedito e di cui non indica l’autore, può quindi rientrare nel regime di responsabilità facente capo al combinato disposto dell’articolo 16 della direttiva 2004/35 e dell’articolo 193 TFUE, purché la normativa che prevede un’ammenda simile, in conformità al principio di proporzionalità, sia idonea a contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata perseguito dalla normativa che istituisce la responsabilità solidale, e le modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale obiettivo

La sentenza della Corte di Giustizia UE, seconda Sezione, del 13 luglio 2017 (causa C-129/16) è consultabile sul sito della Corte di Giustizia UE al seguente indirizzo.